ANCHE LE PIETRE PARLANO

ANCHE LE PIETRE PARLANO

Che  le pietre parlassero, l’ho sempre pensato. Ho sempre pensato che, di questa città,  l’anima fosse nelle piccole casette del cinquecento con quei minuscoli  portoni  sui quali  s’affacciava una porta ancora più piccola;  in quelle  finestre quasi da fate, dietro  tendine magari ancora fatte a mano che nascondevano tra gli smerli qualche faccia rugosa e curiosa. Anche le pietre parlano. L’ho pensato ogni volta  passando  sotto le porte che si aprono nelle mura della città, Porta Castello, porta Leone, porta Branconio, porta Napoli:  guardando  le case  di diversa foggia, misura e fattura addossate l’una all’altra, nell’umidità e nella frescura dei vicoli stretti,  passando per le poche aperture e gli spazi che una città fredda e  a dimensione militare si concede nei secoli.  Anche le pietre parlano. Parlavano le chiese erette lungo i tratturi di solitudini,  di passi  lenti  e scanditi dalle alternanze delle stagioni, delle  nostalgie. Anche gli  intonaci dei palazzi, appena scrostati,  dietro i quali si celavano più mani di colore fino ad ottenere un risultato unico e cromaticamente irripetibile;  somigliava al cromatismo dei tetti, dei coppi: tutte le variazioni del rosa e dell’arancio, tutto il ruggine dei tramonti sereni. Mi piaceva il silenzio che si poteva respirare a due passi dal centro, il silenzio fatto di  rumori e di passeggiate solitarie; mi piaceva quel colore così grigio, solo apparentemente grigio ma ricco di infiniti riflessi in Via San Martino, dove ogni pietra,  ogni ciottolo sapeva portarti un po’ più in là del tuo stato d’animo. A volte si intravvedeva sullo sfondo il Gran Sasso carico di neve, spennellato  di rosa e, nel freddo vento invernale, qualche bagliore di primavera. Una città in cui il cielo si vedeva  azzurro, un azzurro elettrico di montagna, solo in alto, tra i palazzi nobiliari con gli stemmi e i frontoni ancora al loro posto;  atmosfera di nobiltà decaduta, di aristocrazia borghese e indaffarata. Una città dove si poteva passare  velocemente da un quartiere all’altro, seguendo scorciatoie, a piedi, rigorosamente a piedi. Anche le pietre parlano: l’ho pensato di nuovo, tornando e vedendo  le mura le pareti crollate, i balconi contorti, l’ho pensato mentre camminavo con ansia e con fretta, mentre ripercorrevo un perimetro  che le mie gambe sapevano a memoria e registravo meccanicamente i cambiamenti come se al posto degli occhi avessi avuto una macchina fotografica o una cinepresa, lacerata da due bisogni opposti:  conservare quelle immagini dentro di me e allontanarmi in fretta per non soffrire troppo, ricorrendo a una distanza che non riesco ancora a raggiungere.

( Tratto dal Libro di Patrizia Tocci, LA città che voleva volare, ed. tabula fati, Chieti 2010)

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