IL POETA CON LE SCARPE ROSSE

©Il poeta dalle scarpe rosse

 

 

L’Aquila, Ridotto del Teatro comunale: la folla delle buone occasioni, premio Città dell’Aquila-Carispaq intitolato alla scrittrice  Laudomia Bonanni ;  quest’anno ospite d’onore è  lo scrittore Tahar Ben Jelloun. Serata conclusiva: tra i tanti nomi illustri  nella giuria: Maria Luisa Spaziani, Sergio Zavoli, Renato Minore, Giorgio Barberi Squarotti…

Lo scrittore comincia a parlare dei suoi libri, dell’Islam, della sua storia, della Primavera araba. Domande  tante,  e si susseguono. Ne riporto,  ovviamente,  solo alcune. Seduta in fondo alla sala, ascolto con  attenzione, tentando di trascrivere e di ricordare. Prendo sempre appunti quando qualcosa o qualcuno mi interessa. Scrivo. Prima o poi mi servirà. ( Il resoconto della serata  è restato,  per mesi,  prigioniero della mia piccola agendina rossa. Adesso, per ragioni tutte sue, forse cromatiche, è riemerso e ve ne faccio dono.)

“Ciò che ti lega alle tue origini è un albero”: leggo e rileggo questo bellissimo verso del poeta. Mi appartiene, l’ho già fatto mio.

Gli domandano dal  palco : “Come convivono le sue  due radici arabe e  francesi?”

Risponde sorridendo: “Si, a volte c’è un   litigio, ma a volte anche  il litigio può essere  fecondo.” Ad una domanda sull’Islam,  risponde  sintetizzando: “ La religione deve essere nel cuore e nelle moschee e nelle chiese, non nella politica.”

Le domande incalzano. “Pur essendo sostanzialmente noto come scrittore di prosa,  racconti e romanzi,  continua a scrivere poesie. Perché?”

Ricordo velocemente qualcuno dei suoi molti titoli: Creatura di sabbia, Il razzismo spiegato a mia figlia, l’Islam spiegato ai nostri figli, Le pareti della solitudine, L’ultimo amico, Stelle Velate, Il corrotto…

“E’ importante. Si può essere scrittore anche  per dare la propria opinione, ma la poesia è qualcosa di più,  che resta … La poesia ci fa ricordare il poeta… la  Poesia, è come una   essenza, un aroma  particolare  nella scrittura. Io non mi definisco un poeta: deve essere il lettore  a definire, che cosa sia poesia e  chi sia poeta. Ringrazio sempre il mio lettore   se mi  dice :  “ questa non è poesia’’;  lo ringrazio comunque,  già soltanto per aver letto ciò che ho scritto. La poesia è come la matematica. E’  precisa, rigorosa ed ha un ordine ben definito: in più  ha il compito di regalare anche un’emozione. Il verso che riesce a dare un emozione, quello per me è poesia. Si scelgono delle parole fino a giungere ad una musica che ci fa dimenticare anche il  dolore.”

 

Aggiunge, con tono pacato e cordiale, mentre il traduttore cerca con fatica di rielaborare: “Ho avuto la fortuna di non dubitare mai della mia identità … Ho frequentato subito una scuola francese. I miei genitori mi hanno insegnato a non perdere mai l’umiltà: amo sia imparare che insegnare”.

Alla domanda su quale siano i suoi autori, italiani o stranieri,  di riferimento, risponde: “ Jan Janet: gli scrittori più grandi sono sempre i più modesti. Tra gli italiani: Calvino, Morante, Eco:  quelli che hanno “parlato’’ della realtà. La letteratura non cambia il mondo, non lo può cambiare, ma il silenzio è insopportabile.”

Qualcuno chiede quale sia il suo rapporto con l’Italia: “L’Italia è un paese complicato: amo la sua ospitalità,  la generosità è il grande senso dell’amicizia; ho anche convertito tutta la mia famiglia a questo amore”

Una pausa,  lunga: “Questa mattina ho visitato il centro storico della vostra città, mi ha riportato alla mente il terremoto di Agadir nel 1961.”

A questo punto il poeta scrittore si alza dalla poltrona e si dirige verso un leggìo: estrae dalla tasca un foglio piegato in quattro; è quello di un quaderno a quadretti;  si vede bene, anche da lontano: “ Una poesia appena scritta,  davanti alle rovine del centro storico, stamane. Mi è sembrato di trovarmi come in un set cinematografico; camminare in una città interrotta,  vedere una vita interrotta. Durante questa breve visita,   le persone che ho incontrato mi hanno fatto vedere la speranza e la voglia di ricostruire.”. mi emoziono anche io: sono le stesse parole che vado dicendo e  scrivendo da quattro anni, ormai.

Comincia a leggere: riesco con difficoltà a trascrivere qualche frammento della poesia : “ancora vivi… L’Aquila una futura sposa della morte…città fantasma… vita sospesa…Qui c’è qualcosa che assomiglia all’eternità… una città sostenuta da bastoni di ferro …”

Il poeta ha addosso una sciarpa bianca e un bel paio di scarpe rosse, inusuali per un uomo occidentale. A chi glielo fa notare , risponde: “ Le scarpe rosse ci rendono ancora vivi,  anche in un contesto come questo.” E aggiunge, rivolgendosi direttamente al pubblico: “Ogni poesia è una vendetta sulla brutalità degli uomini e della storia. Scrivere non cambia nulla al tempo che soffre. Ma per questo bisogna scrivere e pensare che la poesia salverà il mondo. Per questo  continuerò a scrivere poesia,   e continuerò ad andare contro le montagne che ogni giorno  minacciano di ingoiarci.”

Chissà se quella poesia sull’Aquila entrerà a far parte di uno dei suoi prossimi libri. Io me lo auguro. Si può passare alla Storia in tanti modi. Restare in una poesia di Tahar Ben Jelloun , è sicuramente uno dei migliori.

 

©Patrizia Tocci

,L ‘Aquila ottobre 2012 ( alla destra..Patrizia Tocci, emozionata.. mentre regala al poeta il libro La città che voleva volare))

ANCHE LE PIETRE PARLANO.

RIPORTO IN QUESTO POST, UN BELLISSIMO ARTICOLO DI PAOLO RUMIZ USCITO OGGI 13 AGOSTO SU REPUBBLICA.

Ho scritto tante volte della mia città. Stavolta lascio parlare Altri.

(per chi non lo avesse letto o per chi non avesse visto le immagini basta andare su www.repubblica.it LE INCHIESTE . troverete tutto il materiale…)

Alle sette del mattino, nel centro dell’Aquila deserta, vidi una donna in tulle rosso fuoco attraversare via Paganica. Era pallida e camminava senza fretta, fumando, a filo di transenne. Non so ancora dire se fosse vera o un’apparizione. Certo, somigliava a quella che avevo visto a Pico Farnese accanto alla casa vuota di Tommaso Landolfi, il poeta degli abbandoni. Le case della città perduta erano bagnate dalla luce calda del solstizio, l’ultima neve splendeva sui monti, i tigli erano in fiore e tra le rovine crescevano fiordalisi. L’Aquila era di una bellezza sconvolgente, quasi greca.

La donna camminava fumando e d’un tratto mi accorsi che, a cento metri, potevo sentire l’odore della sigaretta e il fruscio del vestito. Potevo distinguere l’alone di luce attorno alla foresta dei riccioli neri. Con un tuffo al cuore ricordai che solo le rovine desertiche di Kabul, dieci anni prima, erano riuscite a conferire una simile millimetrica evidenza – acustica, olfattiva e visiva – alla passaggio solitario della persona. Come Kabul, l’Aquila era vuota di rumori e di odori; per questo la visione era stata così perfetta e totale. Mancavano i cigolii, la voce delle stoviglie, l’odore del forno e della cioccolateria. I campanili tacevano. Non c’era anima viva.

Aspettai un risveglio. Ma alle otto nulla si muoveva. Alle nove stessa cosa. Niente voci e niente odori umani. Passarono cinque grossi cani in branco. Si sentì il miagolare di un gatto e un gran cinguettio di passeri. Tutto diceva l’inesorabile avanzata della natura nel vuoto lasciato dall’uomo. Ebbi improvviso bisogno di un rombo di motoretta, di una lite fra comari, del colpo di martello di un falegname e persino di un’autoradio a volume esagerato. Ma quando alle dieci mi raggiunse Patrizia Tocci, anche lei orfana di casa, cominciammo a parlare a bassa voce senza ragione apparente. Non volevamo disturbare il letargo delle pietre, e ci bastava un bisbiglio per capirci. In zona rossa all’Aquila si entra e si tace. Ci si lascia la vita alle spalle. In zona rossa un colpo di tosse è un tuono, il trillo di un telefonino un rimbombo.

Ai piedi dei muri transennati di Santa Maria Paganica solo la fontanella cantava, e così quando venne Enrico, un bimbo di 10 anni col papà e un pallone, mi misi a giocare con lui solo per rompere quel silenzio cimiteriale, farlo a pezzi a pedate. Giocammo per il gusto di percuotere le pietre, e l’eco delle pallonate rimbalzò per una buona mezz’ora fra il portale trecentesco della chiesa e la soglia barocca del dirimpettaio palazzo Ardinghieri, venerabile magnificenza dal tetto sfondato. Ma era dura competere col vento d’Appennino che faceva da padrone, strattonava i teloni tesi a coprire i restauri. Eravamo un veliero semivuoto in alto mare.

La città del silenzio aveva sue vestali. Come altri magnifici abbandoni, anche qui erano spesso le donne a custodire la memoria. Alla cantina del Boss, affollatissima, sotto i muraglioni del castello poco, la bionda Nicoletta Rugghia mi versò del Montepulciano e fece un memorabile elenco di ciò che era per lei la vecchia Aquila. Città, disse, è la vicina malfidante che spia dalle persiane, è lo sfaccendato, è il ciclista monomaniaco, è la signora invidiosa dei vasi di fiori altrui. Città è il dirimpettaio arrogante, il fornaio che ti frega cinque centesimi al cartoccio; città è gli sposini timidi, il postino che canta sempre, il collezionista di francobolli. “Città è questo, questo io amavo. E questo oggi non esiste più”. Fuori l’aria era tiepida, ma la città era fredda. Sfiatava miasmi umidi dal fondo dalle sue cantine.

Fu allora che Patrizia mi svelò uno dei mirabili segreti della sua città. In via San Martino angolo via dei Lombardi, in piena zona rossa, tra le macerie di altre case, c’era un palazzo quattrocentesco intatto, appartenuto a tale Jacopo di Notarnanni. Ciascuno spigolo mostrava due piccoli gigli in ferro battuto. Erano abbellimenti delle catene antisismiche tese da secoli dentro i muri maestri. Poi vidi che ce n’erano dappertutto in città, seminascosti dai ponteggi. Erano una decorazione, disse Patrizia, ma anche un ex voto. Un simbolo di purezza dedicato alla madonna, perché il terremoto del 1703 era avvenuto il 2 febbraio, giorno della Candelora. Erano stati quei gigli incatenati fra loro a salvare molte parti dell’Aquila nel 2009. Ma vallo a spiegare ai talebani dell’antisismico, invasati da furia risanatrice.

La sera del solstizio venne con grilli, vibrare di luci lontane e respiro di tratturi. Gli uomini senza più città mi avevano adottato, offerto le loro case di ormai definitiva emergenza. Mi sembrava di conoscerli da sempre. Paolo Rosati mi invitò a cena, suonò alla chitarra una delle sue canzoni di nostalgia e la sua compagna Maria Gabriella Ludovici tirò dal forno una casseruola di melanzane ripiene. Poi andammo sulla montagna fino al castello d’Ocre, dove aspettammo il buio a strapiombo sul paese di Fossa e la faglia assassina. Il cielo era arancio e viola. Da lontano, la nebulosa dell’Aquila era ben visibile col suo buco nero al centro. Il castello, già sfiancato dai secoli, era stato beccato in pieno dalle scosse del 2009. Solo un torrione restava. Il resto era un mucchio di massi instabili simili a tibie, scapole e teschi umani. Inciampai, caddi, non riuscii a salirlo. Ocre era la quintessenza dell’Abruzzo. La rovina di una rovina.

La Luna andammo ad aspettarla sulle Pagliare di Tione, un pascolo di quota da cui nessuna luce umana era visibile. Il Sirente navigava come un transatlantico spento in mezzo a milioni di stelle. Solo dalla parte della valle Subequana un tenue pulviscolo dorato ancora resisteva. Vedemmo passare un cervo, una lucciola mi si posò sulla mano destra, svegliammo uno scorpione dietro l’uscio, poi sentimmo il richiamo dei lupi. Nella baita di Paolo c’era solo qualche candela e accendemmo il fuoco nel camino. Poi raccontai delle case del vento di cui l’Italia era piena. Dissi di Paolo, l’amico che per tutta la vita aveva voluto un faro abbandonato per vivere e poi aveva scelto un faro solo per morire.

Fu allora che uscì la Luna, dalla parte della Majella, la grande montagna madre, e dentro il mantice dei polmoni sentii gonfiarsi un canto silenzioso d’anarchia e di furore. Diceva: tornatevene aquilani, disobbedite ai divieti. Tornate prima che la città muoia, diventi archeologia. Tornate e riprendetene possesso con le vostre cose, i vostri rumori e i vostri odori. La zona è rossa, ma di vergogna per come viene preclusa ai vivi. Non consentite che le vostre strade diventino terra di cani. Sentite come il luogo vi chiama, come tutti i vostri morti vi chiamano. Non accettate di essere esuli in casa vostra. Non lasciate sole le vostre pietre.

Poi restammo in silenzio, ad ascoltare lo scricchiolio delle stelle.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz e Patrizia Tocci a caccia di gigli, nella zona rossa dell'Aquila.

 foto di Alessandro Scillitani

 La Repubblica 12 agosto 2011

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Negli occhi dell’Aquila. ( InMOTO MANET)

 hanno letto un mio articolo che cominciava così “Venite all’Aquila, venite a veder con i vostri occhi” Hanno raccolto l’invito, Osvaldo Pedana e i Motociclisti NON agitati di Umbertide (Pg). Abbiamo cominciato pian piano con comodo a fisssare modi tempi e luoghi….sto lavorando da mesi per

quello che chiamo IL TURISMO ETICO. venite all’Aquila a vedere, con i vostri occhi. Loro sono venuti. più di 340 moto..da Umbertide, da Perugia, da Rieti, da Spello, da Antrodoco e da Pescara, da Roma..si sono incontrati on the road, per strada..nei ritrovi o nei ditributori. All’Aquila, l’appuntamento finale era a Centi-colella. Scortati dalla polizia municipale..sono arrivati in Piazza Duomo. Una carovana di moto con i nastrini neroverdi appesi dietro i sellini, un pò disorentati. La banda dell’Aterno li ha accolti, in una piazza disordinata e invasa da camion: stavano montando un palco per il giorno dopo. Ma ci siamo entrati lo stesso, nel tendone..un pò dentro un pò fuori per parlare un pò, per scambiarci i regali, per commuoverci e per sorridere.  Con Stefano Corbucci, presidente dell’Associazione Moto, l’onorevole Giovanni Lolli e il vicesindaco Giampaolo Arduini… poche parole, pochi saluti e la canzone “l’Aquila bella Mè” cantata e suonata da anna Barile. Abbiamo deposto due corone al monumento delle vittime del Sisma e è cominciata la visita alla città.  Stavolta non ho fotografato la città.   Ne conosco bene ogni crepa. Ho fotografatoi loro volti, il silenzio della loro presenza,  il rispetto per i luoghi.  Loro vedevano   case e  palazzi, le mura e le strade, i vicoli e le finestre.  Hanno sentito  l’assenza del rumore, hanno visto l’erba che cresce sulle macerie, gli oggeti ancora sparsi qua e là..gli oggetti che accompagnavano la vita quotidiana. Un serpentone di persone. Ma il silenzio era totale.   Hanno scattato foto, fatto domande, visto, guardato. ma io credo che la prova più grande della vera situazione dell’Aquila ( dell’entità del disastro e della sfida epocale che ci attende) sia rimasta nei loro occhi. Per questo  diranno, a chi sosterrà che qui all’Aquila è tutto risolto : ” Guarda nei miei occhi…non vedi che non è così?”

L’Aquila, città dei gigli

Dobbiamo recuperare tutti quei gigli che secondo Laudomia Bonanni, sono stati messi sui muri degli edifici sopravvissuti al  terremoto del 1703.. Sono vari e diversi, piccoli e grandi, alcuni molto lavorati, altri appena sbozzati. Fanno parte ormai doppiamente della nostra storia. Già due anni fa, quando mi occupai di questo aspetto per la realizzazione di un dvd su Laudomia Bonanni, alcuni di essi vivevano da clandestini, attorcigliati ai fili della corrente, spesso usati come supporto dei cavi, alcuni addirittura tinteggiati con lo stesso colore dell’intonaco; di altri a malapena restava un petalo o soltanto il pistillo.

Lo so che è poca cosa, so bene che dobbiamo ricostruire una città e che queste potrebbero sembrare inezie.I gigli però erano la parte finale ed ornamentale di quelle catene di ferro che hanno salvato numerosi edifici: hanno quindi un ulteriore valore, un ulteriore monito. Mai far morire la memoria letteraria. Serve a ricordarci come eravamo e a prendere le giuste precauzioni nella ricostruzione. Mi rivolgo a tutti i proprietari o gli abitanti dei palazzi situati nel centro storico, specialmente in Via San Martino, San Flaviano e anche lungo Corso Vittorio Emanuele, dalla Fontana Luminosa fino alla Villa.

Spero che qualsiasi forma di ricostruzione e restauro voglia preservare e conservare questa traccia importante della nostra identità. Inoltre il giglio potrebbe diventare l’emblema del ricordo e riportare alla nostra memoria, delicatamente, con un fiore, quelle persone che non ci sono più, da quella tragica notte del 6 Aprile 2009, notte che è stata uno spartiacque nella vita di tanti

Patrizia Tocci