Fiori di campo

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Ecco, per tutti voi che mi leggete con tanto affetto e stima, la mia Personale buona Pasqua.
LA valigia di Cartone n.6
“Ci sono delle pratoline secche, in un piccolo erbario, nella valigia di cartone. L’infanzia ha proprio quel colore: calzettoni bianchi, traforati, con l’elastico sempre un po’ cedevole, quelli della domenica mattina che dovevano restare bianchi ed era fatica e penitenza. Le gambe correvano veloci, si arrampicavano sugli alberi bassi, percorrevano i sentieri di terra e d’erba. Nei prati, zuppi di pioggia e d’acqua, nascevano le primule. Cespi di un colore latteo, i primi fiori della primavera, che aveva quel colore di certe mattine, slavato e liquido. Eppure già pieno di luce. Nascevano anche le prime viole, discrete e pensierose; sotto gli sterpi e sotto i rovi, nei luoghi più ombrosi. Le primule invece chiamavano il sole, lo invocavano che diventasse più forte e più alto nel cielo; presto sarebbero state soppiantate dalle margherite bianche, con il cuore di sole. Non so bene cosa pensassi allora. Difficile riacciuffare i fili dell’infanzia, quelle giornate che non avevano orari, quelle lunghe ere in cui si stabilisce un patto tra te e il mondo, in cui c’è una specie di dissipazione, accettata da entrambe le parti, con la motivazione ridicola ( ma questo lo capirai soltanto dopo) del “ sempre”. Le margherite dovevano attraversare la frontiera tra la primavera e l’estate. Per questo erano ben attrezzate, avevano un gambo robusto, radici profonde ed un bianco splendente, un giallo squillante. Avevano il compito di riempire i prati del fieno, competere con le spighe ed i papaveri. Fiori di campo, che si trovavano nell’erba alta o sui pendii sassosi, in mezzo alle sterpaglie, accanto alle rive del fiume. Ma io avevo stabilito un patto con l’azzurro. Amavo soprattutto i fiordalisi: il loro azzurro, tra l’indaco e il violetto, riflette proprio la purezza del cielo di montagna, soprattutto in certe giornate. Questo è il mio augurio per la vostra Pasqua: un cielo sgombro di nubi e sereno. Sotto qualsiasi cielo voi siate.”
Dedicato a tutte le Margherite e i fiordalisi che ho incontrato nella mia vita.La valigia di cartone n 6

Dante Maffia legge Nero è il cuore del papavero, ultimo romanzo di Patrizia Tocci

PATRIZIA TOCCI, Nero è il cuore del papavero, Chieti, Edizioni Tabula fati, 2017, pagg. 127.

C’è stato un lungo periodo durante il quale l’attenzione dei poeti e dei narratori è stata rivolta quasi esclusivamente alla madre, se si escludono i memorabili esempi di Camillo Sbarbaro, Alfonso Gatto e Salvatore Quasimodo, anche se non mancò un’antologia ricca e articolata curata da Luciano Luisi.
Da un po’ di anni a questa parte l’attenzione si è rivolta al padre e così sono fioriti romanzi e racconti che hanno sopperito alle manchevolezze.
Patrizia Tocci, già prosatrice e poetessa con libri di molto interesse come Un paese ci vuole, del 1990, Pietra serena, del 2000, e La città che voleva volare del 2010, dedica al padre un romanzo, Nero è il cuore del papavero, fresco di stampa.
E’ la ricostruzione di un mondo che ormai esiste soltanto nei libri di antropologia, ma che la scrittrice fa rinascere sull’onda calda della memoria per ridare vigore e sostanza ai ricordi, per ridisegnare la vita e l’anima di un uomo che sembra essere nato dalla terra e vissuto dentro le regole ancestrali di un Abruzzo immobile nei secoli, ma vivo e palpitante, ricco di quei mille rivoli d’amore che costituiscono l’affresco meraviglioso e dolorante della memoria.
Il romanzo non racconta storie complicate o avventurose, non offre intrecci che si sviluppano con concatenazioni a sorpresa, ma scorre lieve e accorato sulle vicende di un quotidiano che, direbbe Lorenzo Sterne, ha più forza e ragioni autentiche delle grandi avventure.
Sì, una vera e propria educazione sentimentale che focalizza, nella dolcezza più assoluta, le abitudini contadine, i dialoghi tra padre e figlia, i sospiri, addirittura, sullo sfondo di paesaggi meravigliosi ora ammantati del bianco della neve e ora colorati di fiori che sottolineano il bisogno della tenerezza.
La Tocci spesso non disdegna di dare pennellate di poesia, di soffermarsi su particolari che in sintesi offrono il carattere dell’uomo semplice che davvero sente crescere il grano e davvero è un albero, come sostiene la figlia.
Insomma, “Quanto vale una rosa d’inverno?”. Vale una intera esistenza e dimostra che i sentimenti sono l’osso e l’anima, come diceva Bartolo Cattafi, dell’umanità e che senza di essi tutto sarebbe una corsa verso l’inessenziale e l’inutile.
La scrittura di Patrizia Tocci oltre che poetica ha il pregio di portarci dolcemente dentro un rapporto che ci fa conoscere l’autenticità delle radici terragne di un luogo che sembra essere una pagina biblica. Infatti la ieraticità dei gesti, la rivisitazione delle tradizioni, i silenzi, le fioriture, le albe, i tramonti non sono soltanto descrizioni, ma momenti di comunione con la natura, essenze di comportamenti che danno senso allo scorrere della vita.
Un libro così sicuramente sarebbe piaciuto a Ignazio Silone e a Francesco Jovine. E’ piaciuto anche a me e a tutta la Giuria.

DANTE MAFFIA
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