LA FEBBRE DEI LUOGHI ABBANDONATI

La febbre dei luoghi abbandonati

“ La febbre dei luoghi abbandonati mi prese in Grecia”: con questa frase Paolo Rumiz, inesausto viaggiatore e  scrittore, giornalista del Piccolo di Trieste e di Repubblica,  comincia  e  giustifica il suo viaggio dell’estate 2011, alla ricerca delle  “Dimore del vento”, dei luoghi abbandonati, delle case degli Spiriti. Per la prima volta il viaggio è stato filmato da Alessandro Scillitani : diventato poi un dvd, distribuito con Repubblica.

Nel suo   viaggio lento,  Paolo Rumiz   percorre i “sentieri dei nidi di ragno”ormai chiusi,   sbarrati;  entra con delicatezza, scosta , cerca, domanda ai pochi umani presenti in quella totale desolazione. Tutti rispondono allo stesso modo: un luogo E’ memoria. E’ il concentrato dei volti e dei nomi che lo hanno addomesticato;  la storia   di intere comunità  può essere racchiusa in un toponimo, nella ruggine di una centrale abbandonata, nel nero di una torbiera, in una stazione dismessa, in una fabbrica sprangata, in un faro che non risplende più. Non sono ancora “rovine” nel senso archeologico del termine; fanno parte di un passato ancora prossimo , espunto velocemente dalla nostra memoria.

Luoghi che non troverete in nessuna guida, libro di viaggi o mappa. Rumiz aveva la sua, di mappa. Una carta fatta a mano, piena di nomi, numeri di telefono, contatti, suggerimenti, ombre da inseguire. L’ho vista, quella mappa, sul tavolo di uno dei pochi bar riaperti in una città abbandonata: L’Aquila, la città che non c’è. La mia città. Ho accompagnato Rumiz e Scilliitani nella zona rossa  ad  incontrare  le ombre e il silenzio,   le lancette ferme degli orologi,;  scortati da un branco di cani, unici custodi del luogo. Meno male che qui  – e altrove –  esistono ancora i custodi dei luoghi:  animali totemici,  parole o persone che mantengono vive le memorie;  piccole divinità   benefiche che lottano disperatamente contro  i mangiatori di loto.

Dai Forti della Maddalena al deposito di scorie di Saluggia, dai ruderi di Rocca Calascio alla desolazione di Venezia, dalla casa del poeta Tommaso Landolfi  al cimitero di Lavezzi,:  per  ritrovare la voce dei luoghi sopravvissuti alla  legge inesorabile della dimenticanza. Le immagini girate e catturate da Alessandro Scillitani si sposano perfettamente con le parole e l’andare di Rumiz,  impreziosite da musiche e silenzi che  ne sottolineano i  paesaggi e  i passaggi geografici; documentano  lo spazio del cibo, la sosta o  la magia degli incontri .  Viviamo o cerchiamo di vivere in un paese  dalla memoria corta che lascia marcire i suoi tesori, cancella i tratturi, incrementa le diaspore;  un paese che rinnega le sue origini, le sue caratteristiche peculiari. Così  può accadere  che il passato prossimo si trasformi in passato remoto:    rimosso   dall’oggi ,  confinato  invece in un eterno presente che ha tutte altre ragioni, tutte altre necessità. Ma  nessuna destinazione e neppure  memoria di sé.

(La regia del video, tratto dai racconti di viaggio “Le case degli spiriti” pubblicati su “la Repubblica” nell’agosto 2011 e prodotto dalla Tico Film Company, è di Alessandro Scillitani.)LE DIMORE DEL VENTO

Il paradiso delle scarpe

IL PARADISO DELLE SCARPE

 In zona rossa ho trovato specchi rotti, erbacce, poltrone,  ciabatte sformate e perdute nella corsa e nella fretta.    Ho trovato una scarpa un po’ fuori moda, probabilmente  piegata dal  peso di una donna anziana, magari cicciottella e con le gambe gonfie;  si può veder ancora un po’ della sua storia,   qualche residuo nel tacco comodo , nel la punta un po’ sformata nella quale la cipolla del piede proprio non voleva starci…Quelle scarpe magari uguali alla  borsetta, stretta stretta, di quelle che si portano quasi sottobraccio  Ho visto anche qualche scarpa con il tacco a spillo, di  vernice    fuxia inglobata in un mucchio di macerie, sulle quali era già cresciuta  l’erba . Mi era sembrata un fiore, in tanta desolazione…  Ho visto  le scarpe da lavoro, quelle che mantengono la traccia della colla o della vernice, sporche di giorni ed anni passati ad inchiodare, a costruire, a livellare, a fare case che poi non ti appartengono; la scarpa da passeggio  da uomo, di pelle nera, lucida e pulita, quasi miracolosamente intatta quelle buone, nere, con il tacco quadrato… Ogni tanto qualche scarpa da bambino,  scarpe da ginnastica,  ma sempre spaiate sempre un solo esemplare..Che nostalgia  devono portarsi dentro  tutte quelle scarpe..se esiste un paradiso per le persone che sono morte quella notte, ci sarà anche un piano riservato alle scarpe, dove potranno ricongiungersi, dopo aver camminato per anni,  insieme su e giù per i portici,  sui ciotoli di via San Martino o sulle pietre bianche di Piazza San Pietro…

Patrizia Tocci

art. pubblicato su Il centro del 22 /1072011

I GIORNI DELLE NUVOLE

 I GIORNI DELLE NUVOLE

 

 

 

A volte le parole non mi obbediscono. Stanno, come un cielo di nuvole,  piccole piccole che appena lasciano intravvedere un pezzettino di azzurro  – e non sai mai se minaccino pioggia o portino sole,  : quando le parole s’impigliano,  bioccoli di lana  appesi  ad un filo spinato. Bisogna tracciare la linea dell’orizzonte. Fare un bilancio, andare oltre  l’indifferenza.

 La  vita  mi ha travolto, come una mareggiata. Ma che gliene importa al mare, se le conchiglie che ha cullato fino ad un attimo prima adesso sono in secca sulla spiaggia. E si confondono e si mescolano con pezzi di vetro ormai spuntati, con resti  di gomene , schegge di polene. Una nave   se  ne va sicura, come se ne va sempre , sicuro,  chi parte … Dentro , faglie  su cui scorrono  i destini,  storie che  vanno alla deriva. Quando vado in alto mare per pescare, uso sempre una rete a maglie troppo larghe.  Sarà perché spesso indulgo alla dolcezza, al perdono : e scappano via tutti i pesci di piccole dimensioni, persino le stelle marine ne approfittano e si dileguano. Le scaglie rosa della triglia moribonda mi ricordano interi  libri di poesia, le vibrazioni  dei colori sotto gli arcobaleni  dove  ho creduto  ci fossero i tesori. Sulla terra non ci sono tesori. Qualche paguro s’infila ( come me) in una casa non sua.  Perdonarlo  e lasciarlo ritornare al mare è  questione di attimi. Tornano   in libertà persino le meduse.  Così passano i giorni. Quando tiro su la rete, un’altra parte del bottino è per i gabbiani che m’inseguono e che condividono con me qualche giornata di bonaccia, di finta allegria. C’è bisogno anche di loro, sulla mia barca.  Resta  poco per mangiare. Però nella pesca di ieri ho trovato le perle. Tre ostriche fortunate. Due perle bianche ed una nera. . Ho un sacchetto di velluto rosso in cui ripongo le perle. Il mio tesoro nascosto. Le perle si scaldano , a contatto della pelle. Conservano a lungo il calore. Tocco il sacchetto. Conosco a memoria la dimensione di tutte le  perle. Anche queste non le venderò. Prima o poi basteranno per fare una collana meravigliosa: la collana dei giorni o dei nomi che meritano di essere ricordati.  Per la loro dolcezza, per la loro bellezza, per la disperazione o per la gioia, per il  dolore. Ogni perla ha dentro  anni di tempo. Questa nera l’ho trovata da poco. Mi fa compagnia il suo terribile splendore. Non la cederei a nessuno, a nessun prezzo.  C’è dentro l’anticipo di vecchiaia della mia vita, o il resto della mia gioventù. Ci sono dentro tutti gli sbagli e le scelte giuste, tutta l’ingiustizia della casualità,  tutte le notti passate sveglia a ricordare. Ci sono tutte le promesse di questo destino che mi ha travolto insieme a tanti altri , ma anche  questa forza cocciuta che mi sospinge ad andare oltre, ad attraversare la gioia e il dispiacere. Si travalica l’allegria o la tristezza. Questo è tempo ancora da vivere.  Ancora,  per sentire il sapore salmastro del mare. Ancora,  per tornare a terra.

A terra la pioggia scivola leggera sulle case. Pioggia grigia,  sulle montagne dalla terra nera.  E il mondo sembra davvero una perla  che gira su se stesso lungo una traiettoria sconosciuta, una biglia nera che è tutta la felicità nelle mani di un bambino, se riesce a farla cadere nella buca, tra le risa e le urla dei compagni. Poi la riprende, quella biglia scura. La posiziona per un altro percorso. Con spietata indifferenza. Per un’altra traiettoria. Per un’altra storia. Coraggio.

 

 

L’Aquila , 2011

OCCHI DI GATTA

OCCHI DI GATTA

 

 

 

Adesso sogno spesso, acciambellata sotto le scale.  Anche nell’altra casa avevo la mia cuccia, ma dormivo  in tanti  altri posti del giardino.  Mi piaceva stare  vicino alla vetrata, sul davanzale, con al lato la  vecchia pianta di rose . La padroncina aveva lasciato due cuscini in quel rettangolo di sole.   Ci rimanevo beata per ore, fino  all’ultimo raggio . I miei padroni sono andati via di casa, quella sera, portandosi solo Nala, la cagnolina preferita… Noi  siamo rimaste nel giardino,  in quella notte terribile.  Ma sapevo che non ci avrebbero abbandonate.  Il  padrone è venuto a prenderci con due gabbiette bianche, per portarci a Pescara. Che bello, li. Tutta la famiglia  riunita, bipedi e quadrupedi.

C’erano anche altri due gatti e un  cane,  Buzz … che gazzarra, amici e un bel giardino tutto per noi. Un giorno però,  mia madre Cenere non è più tornata dai suoi vagabondaggi pescaresi. Anche questa volta gli umani non hanno pianto. O almeno non li ho visti piangere. Ma dal modo in cui mi accarezzavano,  ho capito. Capisco sempre i loro umori, viviamo insieme da tanti anni.  Poi siamo ritornati vicino la città. Ma non più in quella casa bella col giardino e col fico centenario. Salivo  con un balzo  fino alla finestra del secondo  piano, miagolavo fin quando non mi aprivano. Adesso ho un giardino più grande e  c’è anche un’altra gatta arrivata da poco, una clandestina sperduta senza permesso di soggiorno.

 Mi ha detto che ha perso tutto con il terremoto: casa e umani. Non parla molto. I primi giorni  nemmeno un miagolio di cortesia. Ma anch’io ho avuto i miei guai. Sono finita sotto un’automobile, per poco non morivo anch’io. Passano camion grandissimi e   le strade sono tanto larghe che ci vuole coraggio  per attraversare. Nella città vecchia bastava fare un salto sul muretto di cinta e poi un tetto, un altro tetto e un balcone … Giornate  intere sui tetti … I miei padroni qualche volta sono molto tristi, qualche volta  allegri. Mi danno crocchette speciali. Mi piacerebbe che sorridessero un po’ di più.  I  gatti dei vicini  mi stanno antipatici  e i tetti sono tutti immensamente alti.

Vado a caccia di lucertole, gioco con le foglie dei pioppi o inseguo le lumache. Qualche volta, per disperazione parlo con la cagnolina Nala ( ormai ci vogliamo quasi bene).Mi piacerebbe tornare sul divano bianco di quella vecchia casa. Sono sicura che adesso gli umani  mi  lascerebbero dormire anche  li.  Potrei  tornare a cacciare tra le grandi foglie del fico centenario, miagolare sotto la finestra, ritrovare quella mano che apre e  mi lascia entrare, con una carezza.    Chissà se sono  sogni  d’oro  negli occhi di una  gatta, Nera..

Patrizia Tocci

( dedicato ai quadrupedi e ai bipedi di tutte le specie e le razze, compresi gli umani)

TERRY E NERINA ( ALIAS SILVESTRO)

SADNESS AQUILANA

VIGNETTA DI sTAINO PER LE CARRIOLE AQUILANE.

Ho ripercorso lentamente viale Gran Sasso: lì la vita sembra quasi scorrere normalmente: un po’ di traffico, bar aperti, macchine che sfrecciano. …I porta-cartelloni pubblicitari sono stati ripuliti, ma non fino in fondo. Qualcosa resta ancora aggrappato alla carta e alla ruggine. Si vedono gli ultimi strati, forse proprio quelli di due anni fa: la processione del Cristo morto, prima che si spalancasse l’inferno. Un manifesto della Premiata Forneria Marconi che canta De Andrè ( mi sembra di ricordare che ci fu in Piazza Duomo, quel concerto.) Le cose più vicine nel tempo sembrano coperte da una nebbia a banchi. Come quando vai per le autostrade di notte. La nebbia continua a salire lungo il viale … Un “vecchio” manifesto delle elezioni provinciali; e poi il rumore amico, la spuma festosa della Fontana Luminosa … L’occhio cancella le case diroccate e puntellate. Trova il coraggio per ripercorrere il nostro vecchio corso. Subito sento il fresco dei vicoli, quello della mia città, lo riconosco. È un saluto. E’ come il respiro del mare, lento , regolare; tra un cantone e l’altro un po’ di vento, qualche giovane coppia con un passeggino. Poca gente, comunque. Qualche turista, con il naso in su. Da questo li riconosci. Noi camminiamo come in guerra, guardando dritto : abbiamo una missione da compiere, camminare in mezzo alla nostra speranza e al nostro dolore, cercando di escludere dallo sguardo le crepe, i puntellamenti, i portoni sfasciati, le transenne e i divieti. Facciamo finta. I turisti guardano e scrutano, fotografano o indicano. Una coppia si avvicina alle “ vecchie” chiavi appese alle transenne. Si stanno arrugginendo anche i portachiavi di metallo. Passo il ceck point inoffensivo . Sento parlare inglese…Parlano sottovoce. Lei però è di Milano e mi chiede “ come mai tutto è ancora così?”: ma prima che io possa soltanto cominciare la lunga risposta che vorrei e dovrei dare, l’altro, l’inglese mi guarda negli occhi, si rivolge direttamente a me.. e mormora “ sadness..sadness..ssadness”. Chiede insistentemente alla compagna di tradurmi quella parola. Ma non ho bisogno della traduzione. Un po’ d’inglese me lo ricordo; capisco bene da me, sulla mia pelle, cosa vuole dire. Provo a tradurlo : malinconia, nostalgia malinconica. tristezza infinita, mestizia. Non riesco più a spiegare niente. Proseguo. Sono riapparse le vecchie insegne , quelle dipinte direttamente sui muri sulle pareti della Banca. Guardo il cielo che ha già una venatura autunnale; passa veloce uno stormo di uccelli. Ma da qui , riesco a vedere, per quanto mi sforzi, solo quattro gru. E’ un cielo ancora povero di ali….