Nei paesi tra Abruzzo e Lazio dove il tempo si è fermato. La montagna è ridiventata incantata e l’emergenza si mostra come un semplice ritorno alla stagionalità perduta. Vent’anni fa tutti uscivano con la pala in mano. Oggi aspettano, ma non arriva nulla: gli enti locali non hanno più mezzi
di PAOLO RUMIZ
di PAOLO RUMIZ
BALSORANO – All’alba il silenzio è assoluto. In tutta la valle non si muove più nulla, nemmeno il treno. Qui niente luce, niente riscaldamento.
Alle otto nevica da dodici ore, il tempo si è fermato in Appennino, qui tra Abruzzo e Lazio. In dodici ore è passato uno spartineve, una sola volta sotto gli alberi stracarichi, e poi niente. La tormenta non molla, anche qui, a quota 350.
Dalla finestra della locanda dove mi trovo posso controllare perfettamente chi passa in Val Roveto, quella che da Cassino sale ad Avezzano sotto i monti del Parco nazionale d’Abruzzo. È un varco stretto come le Termopili, ma non vedo passare nessuno. La strada provinciale, la superstrada per l’Aquila, il ponte sul Liri, la stradina locale per Sora, la ferrovia, il fiume: non transita nulla, tranne le oche che litigano in basso, i merli e i passeri in cerca di cibo. I volatili sono l’unica cosa viva. Nel bosco si sono spenti i colori tranne la livrea di un pettirosso. La montagna è ridiventata montagna incantata, e quella che chiamano emergenza qui si mostra come semplice ritorno a una normalità stagionale perduta. A febbraio, appena dopo i giorni che i nostri vecchi chiamano “della merla”, l’Appennino ripristina il suo ruolo millenario di muraglia dei lunghi inverni che divide due mari e due Italie.
Come quando gli inverni erano inverni, nessuno più si sposta, il mondo si rintana, le greggi si rinserrano, i lupi scendono a valle, i monasteri tornano al silenzio dell’Alto Medioevo. Intanto, le mie vedette appenniniche disseminate nel centrosud mandano via telefono bollettini d’altri tempi. Dalle gole del Sagittario presso Sulmona: “Mezzo metro. Stiamo spalando. Le pecore sono al chiuso, ma ora tiriamo dentro anche i somari, perché con gli orsi non si sa mai”. Da Avellino: “Neve in città. Fino a un metro sul Montevergine. C’è un silenzio magnifico, perfetto per scrivere”. Anche Foggia è sotto. “Il Gargano è bloccato – scrivono – neve sugli uliveti e sui pascoli della transumanza. Neve anche sul santuario di Padre Pio. Non si muove più niente”. Da Piandimarte presso il Trasimeno: “Siamo totalmente isolati da tre giorni. Il Comune non risponde. Mia madre sta morendo e non abbiamo più medicine”.
Ore 10, quaranta centimetri di neve compatta, e ancora nessun trattore a spazzarla via. Facile vedere l’Appennino d’estate. L’Appennino lo capisci d’inverno. Il suo isolamento, la sua durezza pastorale, la sua distanza dal potere. Qui siamo vicinissimi a Roma ma pare di essere a mille miglia. Quando,in un inverno come questo, qui tuonò il terremoto del 1915, l’esercito ci mise quasi una settimana ad arrivare. Oggi non è cambiato nulla. In compenso sono cambiati gli italiani. Hanno perso le mani. Pochissimi spalano. La gente è rintanata e aspetta.
Vent’anni fa con le grandi nevicate, tutto il Paese usciva con la pala in mano. Oggi che la Protezione civile ha esautorato i volontari e anche il buonsenso, tutti aspettano che siano gli altri a tirarli fuori dai guai. Ma non arriva nulla, perché gli enti locali in bolletta non hanno più mezzi.
Immobilità assoluta, l’inverno ha fermato la moviola della vita. Ed è tutto fermo proprio nella terra più ballerina d’Italia, la linea dei terremoti che arriva fin qui dalla Calabria attraverso l’Irpinia e la Maiella.
Nevica su l’Aquila, bianche meringhe crescono sui tetti della città del silenzio, arrotondano i camini, abbelliscono persino le impalcature della ricostruzione che non c’è. Nevica su Onna, epicentro anche mediatico della devastazione dove oggi non va più nessuno, turbina lento sulle rovine dei paesi perduti e su un popolo di profughi in casa loro. Fermo, tutto fermo, con auto abbandonate di traverso sotto una coperta bianca di settanta centimetri.
Giovedì, giorno della vigilia ho attraversato tutto il Sud per arrivare qui dalla Puglia, sulla direttrice della via Appia. Sotto un cielo color anice i bastioni appenninici erano coperti di un bianco sporco come di greggi, e sembravano gonfiarsi nell’aria, assumere più rilievo. I contorti Picentini a picco su Salerno, le cupe Mainarde ai limiti del Molise, il Monte Morrone dove andò a rifugiarsi il papa Celestino V, la quasi inesplorata Serralunga sotto il Parco Nazionale d’Abruzzo, il muraglione del Matese alto sul paese delle bufale, i monti della Ciociaria con le civette e le capre lunari cantate da Tommaso Landolfi. La neve evidenziava le altimetrie e rendeva più chiara la struttura della spina dorsale d’Italia.
Si svelava un mondo costruito nell’inverno e per l’inverno, una barriera più severa e implacabile di quella alpina. Da un posto chiamato “Varo dei Lupi” ho visto la terra fumare e sfiatare vapore in attesa del freddo. E poi le migliaia di croci del cimitero militare di Cassino immobili sotto il cubo tremendo del monastero e l’ombra di un monte rotondo detto Cairo. Oltre quelle croci iniziava la terra delle madri vestite di nero, regine d’inverno, padrone dei focolari, dispensatrici di cibo, malocchio e ricette salvifiche.
A mezzogiorno siamo a oltre mezzo metro, gli alberi sul fiume sono curvi e tesi come fionde, ogni tanto dal tetto scivolano con un tonfo fette pesanti e immacolate di panna. Ci diamo dentro a spalare, ma l’auto è sepolta, chissà quanto resteremo qui. Il grande silenzio continua, niente auto, niente camion, niente treno. “Pronto, prefettura? Quando ci mandate uno spartineve?”. Risposta: “Siamo in riunione”. Fuori, la manna scende dal cielo come un grande sedativo su questo nostro Paese in crisi di nervi, e intanto il telefoninofrigge di messaggi su appuntamenti che saltano e provvidenziali cancellazioni causa maltempo. Sentiamo discendere su di noi una assoluzione plenaria da meteo. “Vides ut alta stet nive candidum”, guarda come il monte se ne sta candido di neve alta. Torna alla mente dai tempi di scuola l’ode che il latino Orazio dedicò al Monte Soratte e alle meraviglie dell’inverno. Neve di una volta, soffice come panna montata, neve anni Venti, da battaglia a torte in faccia. La superstrada è così perfettamente deserta che se avessi gli sci da fondo potrei percorrerla andando pian piano fino ad Avezzano. In realtà, siamo felici di essere isolati, buttiamo altri ceppi nel camino e spaliamo neve, bianca come il nome della padrona della locanda, che vedo in bilico su una balaustra a spazzare il tetto della veranda. Intanto, giù al fiume le papere se la spassano nella corrente.
Alle 14 Bianca mette in cantiere cannelloni ai carciofi e racconta di quando rimase isolata per una settimana nel 1956. “Passava – dice – solo qualche asino o mulo di paese”. Ci si raccontano storie, come nel Decamerone; l’isolamento aumenta la comunicazione, la mancanza di luce fa il resto. Ora nevica bagnato, i rami dei salici non reggono al carico e ogni tanto crollano con un crac tremendo che spaventa le anatre sul fiume. Vento umido, il bosco è in sofferenza, si lamenta. Alle 14.30 arriva il primo spazzaneve sulla statale, seguito dal camion spargisale. Viva l’Italia. Alle 16 sulla superstrada transita qualche mezzo a passo d’uomo, solo in discesa. I naufraghi di una corriera rossa rimasta bloccata formano una piccola processione oltre il fiume. Aghi gelati picchettano i vetri. Ci procuriamo candele per la sera. In locanda funziona solo un caminetto; il resto è freddo becco e una lunga notte in arrivo.
Alle otto nevica da dodici ore, il tempo si è fermato in Appennino, qui tra Abruzzo e Lazio. In dodici ore è passato uno spartineve, una sola volta sotto gli alberi stracarichi, e poi niente. La tormenta non molla, anche qui, a quota 350.
Dalla finestra della locanda dove mi trovo posso controllare perfettamente chi passa in Val Roveto, quella che da Cassino sale ad Avezzano sotto i monti del Parco nazionale d’Abruzzo. È un varco stretto come le Termopili, ma non vedo passare nessuno. La strada provinciale, la superstrada per l’Aquila, il ponte sul Liri, la stradina locale per Sora, la ferrovia, il fiume: non transita nulla, tranne le oche che litigano in basso, i merli e i passeri in cerca di cibo. I volatili sono l’unica cosa viva. Nel bosco si sono spenti i colori tranne la livrea di un pettirosso. La montagna è ridiventata montagna incantata, e quella che chiamano emergenza qui si mostra come semplice ritorno a una normalità stagionale perduta. A febbraio, appena dopo i giorni che i nostri vecchi chiamano “della merla”, l’Appennino ripristina il suo ruolo millenario di muraglia dei lunghi inverni che divide due mari e due Italie.
Come quando gli inverni erano inverni, nessuno più si sposta, il mondo si rintana, le greggi si rinserrano, i lupi scendono a valle, i monasteri tornano al silenzio dell’Alto Medioevo. Intanto, le mie vedette appenniniche disseminate nel centrosud mandano via telefono bollettini d’altri tempi. Dalle gole del Sagittario presso Sulmona: “Mezzo metro. Stiamo spalando. Le pecore sono al chiuso, ma ora tiriamo dentro anche i somari, perché con gli orsi non si sa mai”. Da Avellino: “Neve in città. Fino a un metro sul Montevergine. C’è un silenzio magnifico, perfetto per scrivere”. Anche Foggia è sotto. “Il Gargano è bloccato – scrivono – neve sugli uliveti e sui pascoli della transumanza. Neve anche sul santuario di Padre Pio. Non si muove più niente”. Da Piandimarte presso il Trasimeno: “Siamo totalmente isolati da tre giorni. Il Comune non risponde. Mia madre sta morendo e non abbiamo più medicine”.
Ore 10, quaranta centimetri di neve compatta, e ancora nessun trattore a spazzarla via. Facile vedere l’Appennino d’estate. L’Appennino lo capisci d’inverno. Il suo isolamento, la sua durezza pastorale, la sua distanza dal potere. Qui siamo vicinissimi a Roma ma pare di essere a mille miglia. Quando,in un inverno come questo, qui tuonò il terremoto del 1915, l’esercito ci mise quasi una settimana ad arrivare. Oggi non è cambiato nulla. In compenso sono cambiati gli italiani. Hanno perso le mani. Pochissimi spalano. La gente è rintanata e aspetta.
Vent’anni fa con le grandi nevicate, tutto il Paese usciva con la pala in mano. Oggi che la Protezione civile ha esautorato i volontari e anche il buonsenso, tutti aspettano che siano gli altri a tirarli fuori dai guai. Ma non arriva nulla, perché gli enti locali in bolletta non hanno più mezzi.
Immobilità assoluta, l’inverno ha fermato la moviola della vita. Ed è tutto fermo proprio nella terra più ballerina d’Italia, la linea dei terremoti che arriva fin qui dalla Calabria attraverso l’Irpinia e la Maiella.
Nevica su l’Aquila, bianche meringhe crescono sui tetti della città del silenzio, arrotondano i camini, abbelliscono persino le impalcature della ricostruzione che non c’è. Nevica su Onna, epicentro anche mediatico della devastazione dove oggi non va più nessuno, turbina lento sulle rovine dei paesi perduti e su un popolo di profughi in casa loro. Fermo, tutto fermo, con auto abbandonate di traverso sotto una coperta bianca di settanta centimetri.
Giovedì, giorno della vigilia ho attraversato tutto il Sud per arrivare qui dalla Puglia, sulla direttrice della via Appia. Sotto un cielo color anice i bastioni appenninici erano coperti di un bianco sporco come di greggi, e sembravano gonfiarsi nell’aria, assumere più rilievo. I contorti Picentini a picco su Salerno, le cupe Mainarde ai limiti del Molise, il Monte Morrone dove andò a rifugiarsi il papa Celestino V, la quasi inesplorata Serralunga sotto il Parco Nazionale d’Abruzzo, il muraglione del Matese alto sul paese delle bufale, i monti della Ciociaria con le civette e le capre lunari cantate da Tommaso Landolfi. La neve evidenziava le altimetrie e rendeva più chiara la struttura della spina dorsale d’Italia.
Si svelava un mondo costruito nell’inverno e per l’inverno, una barriera più severa e implacabile di quella alpina. Da un posto chiamato “Varo dei Lupi” ho visto la terra fumare e sfiatare vapore in attesa del freddo. E poi le migliaia di croci del cimitero militare di Cassino immobili sotto il cubo tremendo del monastero e l’ombra di un monte rotondo detto Cairo. Oltre quelle croci iniziava la terra delle madri vestite di nero, regine d’inverno, padrone dei focolari, dispensatrici di cibo, malocchio e ricette salvifiche.
A mezzogiorno siamo a oltre mezzo metro, gli alberi sul fiume sono curvi e tesi come fionde, ogni tanto dal tetto scivolano con un tonfo fette pesanti e immacolate di panna. Ci diamo dentro a spalare, ma l’auto è sepolta, chissà quanto resteremo qui. Il grande silenzio continua, niente auto, niente camion, niente treno. “Pronto, prefettura? Quando ci mandate uno spartineve?”. Risposta: “Siamo in riunione”. Fuori, la manna scende dal cielo come un grande sedativo su questo nostro Paese in crisi di nervi, e intanto il telefoninofrigge di messaggi su appuntamenti che saltano e provvidenziali cancellazioni causa maltempo. Sentiamo discendere su di noi una assoluzione plenaria da meteo. “Vides ut alta stet nive candidum”, guarda come il monte se ne sta candido di neve alta. Torna alla mente dai tempi di scuola l’ode che il latino Orazio dedicò al Monte Soratte e alle meraviglie dell’inverno. Neve di una volta, soffice come panna montata, neve anni Venti, da battaglia a torte in faccia. La superstrada è così perfettamente deserta che se avessi gli sci da fondo potrei percorrerla andando pian piano fino ad Avezzano. In realtà, siamo felici di essere isolati, buttiamo altri ceppi nel camino e spaliamo neve, bianca come il nome della padrona della locanda, che vedo in bilico su una balaustra a spazzare il tetto della veranda. Intanto, giù al fiume le papere se la spassano nella corrente.
Alle 14 Bianca mette in cantiere cannelloni ai carciofi e racconta di quando rimase isolata per una settimana nel 1956. “Passava – dice – solo qualche asino o mulo di paese”. Ci si raccontano storie, come nel Decamerone; l’isolamento aumenta la comunicazione, la mancanza di luce fa il resto. Ora nevica bagnato, i rami dei salici non reggono al carico e ogni tanto crollano con un crac tremendo che spaventa le anatre sul fiume. Vento umido, il bosco è in sofferenza, si lamenta. Alle 14.30 arriva il primo spazzaneve sulla statale, seguito dal camion spargisale. Viva l’Italia. Alle 16 sulla superstrada transita qualche mezzo a passo d’uomo, solo in discesa. I naufraghi di una corriera rossa rimasta bloccata formano una piccola processione oltre il fiume. Aghi gelati picchettano i vetri. Ci procuriamo candele per la sera. In locanda funziona solo un caminetto; il resto è freddo becco e una lunga notte in arrivo.
Paolo Rumiz
da Repubblica, oggi 4 febbraio 2012
( riporto per intero questo articolo: Paolo Rumiz e Alessandro Scillitani avrebbero dovuto essere all’Aquila, il 3 febbraio per una presentazione molto attesa, del loro dvd “Le dimore del vento”. purtroppo le condizioni metereologiche hanno impedito questo incontro. Paolo Rumiz e Alessandro Scilliatni avevano appena presntato il loro dvd a Sora, e sono rimasti bloccati ne La loacanda del Ponte, Presso Balsorano, ( Valle Roveto) . voglio comunque ringraziarli tutti ( compreso Bianca Mollicone) in questo modo.