Interviste (im)possibili: i Gigli della memoria

  LE INTERVISTE  ( IM)POSSIBILI

 PATRIZIA TOCCI  intervista  Tocci Patrizia

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Si, è il mio quarto libro.  Ho pensato che fosse un dovere, questa testimonianza. Ho  creato un gruppo su facebook, La banca della memoria: ed ho cominciato a chiedere,  ai miei contatti virtuali e non solo,  se volessero  condividere  questo progetto: raccontare noi, i testimoni, le prime dodici ore della notte tra il 5 e il 6 Aprile del 2009.  Volevo che fosse la nostra voce di abitanti dell’Aquila e dei paesi del cratere a raccontare quest’esperienza che rinnegava le parole. Sono sempre stata convinta che scrittura e terapia vanno insieme… Pian piano le adesioni sono arrivate. Non è stato facile: in alcun i casi le ho quasi “estorte”, dolcemente ma con forza. Per alcune ho atteso tempi lunghissimi. Ma anche questa attesa aveva il suo senso.  I testi, stando insieme, hanno cominciato a coalizzarsi, a riconoscersi…Così sono nate le 7 sezioni del libro: Numeri, La lista, A piedi nudi, Qui è ancora notte, Voci, L’esodo e gli Intrusi.

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Mi sono accorta di aver fatto anch’io un viaggio, in questi anni in cui ho lavorato per cercare di far emergere la voce di  ogni singolo testo, rispettandolo. Un viaggio nelle storie e nelle vite degli altri. Ci sono testimonianze che riguardano Camarda, Calascio, Coppito, Paganica, San Demetrio, San Gregorio… Zone o quartieri dell’Aquila come San Pietro, Costa Masciarelli, Via Sassa…Nomi che dicono ben poco ai non aquilani, e allora  spesso,  per sintesi,  usiamo dire L’Aquila…Sono testimonianze di ragazzi e  di adulti , di tutte le età e di tutte le professioni.  Autori più o meno noti:  alcuni  hanno un rapporto frequente o professionale con la scrittura, altri  hanno scritto per la prima volta per me. Oserei dire:  scritto per noi. Perché forse, la caratteristica de I gigli della memoria, la sua forza è che è stato un libro condiviso, in tutte le sue fasi: per questo ho usato il sottotitolo Narrazione collettiva. Anche per me ci sono state lunghe pause tra le varie fasi di preparazione del libro:  giorni in cui non riuscivo a trovare il distacco sufficiente da quei  testi che comunque mi riguardavano. Ci sono tanti rimandi tra la prima parte del libro e la seconda, nella quale ci sono soltanto i miei testi e che riguarda invece questo tempo post-terremoto: ma scoprirli toccherà ovviamente al lettore ideale.

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Ogni racconto è un giglio ed ogni giglio corrisponde ai gigli dell’Aquila, bellissimi abbellimenti finali delle catene di ferro che tenevano in piedi i muri maestri nelle vecchie case aquilane. La scrittrice Laudomia Bonanni sostiene  che siano   degli ex voto: e che questi gigli siano stati messi sulle case e sui muri rimasti in piedi dopo il terremoto del 1703. Quei gigli  ci sono ancora:  anche se un po’ nascosti e poco visibili, rappresentano ormai per me ( e non solo per me ) il simbolo della città. Mi piacerebbe che spuntassero di nuovo  su ogni casa ricostruita, a testimoniare dopo  la seconda distruzione e questa seconda voglia di rinascita. I gigli legano, in una catena di ferro, quelli che non ci sono più e quelli che verranno.

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Si, la post fazione di Paolo Rumiz è scaturita  proprio da una sua visita all’Aquila. L’ho accompagnato in zona rossa, perché volevo che vedesse i gigli, tra le rovine… ne è nato un episodio del dvd Le dimore del vento, con la regia di Alessandro Scillitani, allegato a La  Repubblica.

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Ho cominciato a scrivere quando ho cominciato a leggere…più o meno.La parola mi ha sempre affascinato.Mi sembra di ricordare che compitassi già all’asilo. Ho avuto  un nonno  che sapeva inventare ogni tipo di favole, aggiungere infinite variazioni. Conosceva a memoria lunghe filastrocche. Me le raccontava con infinita dolcezza e pazienza. Storie del paese, dei briganti, degli esserini che  vengono dalla notte e che  ti fanno i dispetti,  di quelli che ti nascondono gli oggetti o vivono sui rami degli alberi…Il mio destino era già segnato.

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Si, certo sono nata in un piccolo paese della Marsica, Verrecchie, in provincia dell’Aquila. In prima media ho letto Anna karenina. Tutto. Leggevo di tutto. Dalla piccola biblioteca scolastica ai volumi che una biblioteca viaggiante, nascosta  dentro un furgone, portava una volta al mese fino al mio paese… Avevo tanto tempo per leggere. Mi piacevano tutti i fumetti, soprattutto quelli da maschio: Zagor, Black, Diabolik, Tex. Leggevo, leggevo.

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Per anni i miei quaderni hanno stazionato , dalla casa alla cantina, poi in un altra cantina..poi nel forno..per fare il pane o i dolci…ed è giusto così..Ma dai 18 anni in poi sono sempre andata in giro , ovunque, con un quaderno o un’agenda nello zaino, nella borsa… Questi li ho salvati, quasi tutti. Anche adesso,  con un quaderno nella borsa. Così nascono i miei libri. Scrivo,  anzi mi lascio scrivere. Li chiamo i giorni delle nuvole: il pensiero è distratto e la mente sta altrove…Non so bene dove sia questo altrove. Ma ci entro..e ci resto, per un po’. Quando ne esco, ho un bottino di parole: che sia una poesia, un progetto, semplicemente una frase..qualcosa riemerge da quelle nuvole e si solidifica…a volte ne sono appena cosciente..sento che si sta agglutinando..che la parola si fa rotonda, come una caramella tra le labbra: e quel sapore..ogni volta è sempre un sapore diverso…amaro, aspro, dolce, agrodolce, piacevole o spiacevole…sa di mare e di montagna, sa..di tempo.

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Si,  il tempo mi ha sempre affascinato..ho sempre riflettuto sul tempo e la memoria…e non ne sono mai venuta a capo…Forse questo è il senso della vita: il proprio viaggio nel mondo e gli incontri che questo viaggio ci offre con miriadi  di esseri viventi: uomini e donne, animali gatti e cani, uccelli, fiori, alberi e foglie…ed anche libri..Sì,  certo,  libri: abbracci che ho stretto con scrittori lontani millenni e che pure sento come se  (mi)  fossero contemporanei…Ci sono libri che non si chiudono mai…restano con noi, dentro di noi.

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Sì, è stata una esperienza dolorosa. Però paradossalmente ha potenziato i pensieri, la visione, affinato la sensibilità. Ho ritrovato il gusto dell’essenziale : pochi vestiti, pochi libri, poco di tutto…tanto di altro…il mio motto è diventato: omnia mea mecum fero. Porto tutto dentro di me. Gli anni trascorsi, i pensieri, i ricordi, le esperienze..il tempo. Come una chiocciola, come una lumaca… A volte un millimetro o un secondo costano fatica…altre volte il cammino procede più spedito…

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Non so quando potrò tornare nella mia casa e nella mia città. La mia , come quella di tanti tanti, è una vita sospesa. Ma cerco di viverla  con la stessa intensità di sempre. Appassionarmi alla bellezza. Innamorarmi dei luoghi o delle persone, coltivare i fiori e guardarli crescere, scrivere, leggere. Vivere è già un miracolo.  A questo miracolo ogni giorno recito la mia preghiera laica.

 

Patrizia Tocci

Novembre 2012

 

La montagna Incantata di Paolo Rumiz: l’Aquila e dintorni

“Come naufraghi sull’Appennino isolato aspettando uno spazzaneve”
Nei paesi tra Abruzzo e Lazio dove il tempo si è fermato. La montagna è ridiventata incantata e l’emergenza si mostra come un semplice ritorno alla stagionalità perduta. Vent’anni fa tutti uscivano con la pala in mano. Oggi aspettano, ma non arriva nulla: gli enti locali non hanno più mezzi
di PAOLO RUMIZ
 
BALSORANO – All’alba il silenzio è assoluto. In tutta la valle non si muove più nulla, nemmeno il treno. Qui niente luce, niente riscaldamento.
Alle otto nevica da dodici ore, il tempo si è fermato in Appennino, qui tra Abruzzo e Lazio. In dodici ore è passato uno spartineve, una sola volta sotto gli alberi stracarichi, e poi niente. La tormenta non molla, anche qui, a quota 350.
Dalla finestra della locanda dove mi trovo posso controllare perfettamente chi passa in Val Roveto, quella che da Cassino sale ad Avezzano sotto i monti del Parco nazionale d’Abruzzo. È un varco stretto come le Termopili, ma non vedo passare nessuno. La strada provinciale, la superstrada per l’Aquila, il ponte sul Liri, la stradina locale per Sora, la ferrovia, il fiume: non transita nulla, tranne le oche che litigano in basso, i merli e i passeri in cerca di cibo. I volatili sono l’unica cosa viva. Nel bosco si sono spenti i colori tranne la livrea di un pettirosso. La montagna è ridiventata montagna incantata, e quella che chiamano emergenza qui si mostra come semplice ritorno a una normalità stagionale perduta. A febbraio, appena dopo i giorni che i nostri vecchi chiamano “della merla”, l’Appennino ripristina il suo ruolo millenario di muraglia dei lunghi inverni che divide due mari e due Italie.
Come quando gli inverni erano inverni, nessuno più si sposta, il mondo si rintana, le greggi si rinserrano, i lupi scendono a valle, i monasteri tornano al silenzio dell’Alto Medioevo. Intanto, le mie vedette appenniniche disseminate nel centrosud mandano via telefono bollettini d’altri tempi. Dalle gole del Sagittario presso Sulmona: “Mezzo metro. Stiamo spalando. Le pecore sono al chiuso, ma ora tiriamo dentro anche i somari, perché con gli orsi non si sa mai”. Da Avellino: “Neve in città. Fino a un metro sul Montevergine. C’è un silenzio magnifico, perfetto per scrivere”. Anche Foggia è sotto. “Il Gargano è bloccato – scrivono – neve sugli uliveti e sui pascoli della transumanza. Neve anche sul santuario di Padre Pio. Non si muove più niente”. Da Piandimarte presso il Trasimeno: “Siamo totalmente isolati da tre giorni. Il Comune non risponde. Mia madre sta morendo e non abbiamo più medicine”.
Ore 10, quaranta centimetri di neve compatta, e ancora nessun trattore a spazzarla via. Facile vedere l’Appennino d’estate. L’Appennino lo capisci d’inverno. Il suo isolamento, la sua durezza pastorale, la sua distanza dal potere. Qui siamo vicinissimi a Roma ma pare di essere a mille miglia. Quando,in un inverno come questo, qui tuonò il terremoto del 1915, l’esercito ci mise quasi una settimana ad arrivare. Oggi non è cambiato nulla. In compenso sono cambiati gli italiani. Hanno perso le mani. Pochissimi spalano. La gente è rintanata e aspetta.
Vent’anni fa con le grandi nevicate, tutto il Paese usciva con la pala in mano. Oggi che la Protezione civile ha esautorato i volontari e anche il buonsenso, tutti aspettano che siano gli altri a tirarli fuori dai guai. Ma non arriva nulla, perché gli enti locali in bolletta non hanno più mezzi.
Immobilità assoluta, l’inverno ha fermato la moviola della vita. Ed è tutto fermo proprio nella terra più ballerina d’Italia, la linea dei terremoti che arriva fin qui dalla Calabria attraverso l’Irpinia e la Maiella.
Nevica su l’Aquila, bianche meringhe crescono sui tetti della città del silenzio, arrotondano i camini, abbelliscono persino le impalcature della ricostruzione che non c’è. Nevica su Onna, epicentro anche mediatico della devastazione dove oggi non va più nessuno, turbina lento sulle rovine dei paesi perduti e su un popolo di profughi in casa loro. Fermo, tutto fermo, con auto abbandonate di traverso sotto una coperta bianca di settanta centimetri.
Giovedì, giorno della vigilia ho attraversato tutto il Sud per arrivare qui dalla Puglia, sulla direttrice della via Appia. Sotto un cielo color anice i bastioni appenninici erano coperti di un bianco sporco come di greggi, e sembravano gonfiarsi nell’aria, assumere più rilievo. I contorti Picentini a picco su Salerno, le cupe Mainarde ai limiti del Molise, il Monte Morrone dove andò a rifugiarsi il papa Celestino V, la quasi inesplorata Serralunga sotto il Parco Nazionale d’Abruzzo, il muraglione del Matese alto sul paese delle bufale, i monti della Ciociaria con le civette e le capre lunari cantate da Tommaso Landolfi. La neve evidenziava le altimetrie e rendeva più chiara la struttura della spina dorsale d’Italia.
Si svelava un mondo costruito nell’inverno e per l’inverno, una barriera più severa e implacabile di quella alpina. Da un posto chiamato “Varo dei Lupi” ho visto la terra fumare e sfiatare vapore in attesa del freddo. E poi le migliaia di croci del cimitero militare di Cassino immobili sotto il cubo tremendo del monastero e l’ombra di un monte rotondo detto Cairo. Oltre quelle croci iniziava la terra delle madri vestite di nero, regine d’inverno, padrone dei focolari, dispensatrici di cibo, malocchio e ricette salvifiche.
A mezzogiorno siamo a oltre mezzo metro, gli alberi sul fiume sono curvi e tesi come fionde, ogni tanto dal tetto scivolano con un tonfo fette pesanti e immacolate di panna. Ci diamo dentro a spalare, ma l’auto è sepolta, chissà quanto resteremo qui. Il grande silenzio continua, niente auto, niente camion, niente treno. “Pronto, prefettura? Quando ci mandate uno spartineve?”. Risposta: “Siamo in riunione”. Fuori, la manna scende dal cielo come un grande sedativo su questo nostro Paese in crisi di nervi, e intanto il telefoninofrigge di messaggi su appuntamenti che saltano e provvidenziali cancellazioni causa maltempo. Sentiamo discendere su di noi una assoluzione plenaria da meteo. “Vides ut alta stet nive candidum”, guarda come il monte se ne sta candido di neve alta. Torna alla mente dai tempi di scuola l’ode che il latino Orazio dedicò al Monte Soratte e alle meraviglie dell’inverno. Neve di una volta, soffice come panna montata, neve anni Venti, da battaglia a torte in faccia. La superstrada è così perfettamente deserta che se avessi gli sci da fondo potrei percorrerla andando pian piano fino ad Avezzano. In realtà, siamo felici di essere isolati, buttiamo altri ceppi nel camino e spaliamo neve, bianca come il nome della padrona della locanda, che vedo in bilico su una balaustra a spazzare il tetto della veranda. Intanto, giù al fiume le papere se la spassano nella corrente.
Alle 14 Bianca mette in cantiere cannelloni ai carciofi e racconta di quando rimase isolata per una settimana nel 1956. “Passava – dice – solo qualche asino o mulo di paese”. Ci si raccontano storie, come nel Decamerone; l’isolamento aumenta la comunicazione, la mancanza di luce fa il resto. Ora nevica bagnato, i rami dei salici non reggono al carico e ogni tanto crollano con un crac tremendo che spaventa le anatre sul fiume. Vento umido, il bosco è in sofferenza, si lamenta. Alle 14.30 arriva il primo spazzaneve sulla statale, seguito dal camion spargisale. Viva l’Italia. Alle 16 sulla superstrada transita qualche mezzo a passo d’uomo, solo in discesa. I naufraghi di una corriera rossa rimasta bloccata formano una piccola processione oltre il fiume. Aghi gelati picchettano i vetri. Ci procuriamo candele per la sera. In locanda funziona solo un caminetto; il resto è freddo becco e una lunga notte in arrivo.
Paolo Rumiz
 da Repubblica, oggi 4 febbraio 2012
 
( riporto per intero questo articolo: Paolo Rumiz e Alessandro Scillitani avrebbero dovuto essere all’Aquila, il 3 febbraio per una presentazione molto attesa, del loro dvd “Le dimore del vento”. purtroppo le condizioni metereologiche hanno impedito questo incontro. Paolo Rumiz e Alessandro Scilliatni avevano appena presntato il loro dvd a Sora, e sono rimasti bloccati ne La loacanda del Ponte, Presso Balsorano, ( Valle Roveto) . voglio comunque ringraziarli tutti ( compreso Bianca Mollicone) in questo modo.

ANCHE LE PIETRE PARLANO.

RIPORTO IN QUESTO POST, UN BELLISSIMO ARTICOLO DI PAOLO RUMIZ USCITO OGGI 13 AGOSTO SU REPUBBLICA.

Ho scritto tante volte della mia città. Stavolta lascio parlare Altri.

(per chi non lo avesse letto o per chi non avesse visto le immagini basta andare su www.repubblica.it LE INCHIESTE . troverete tutto il materiale…)

Alle sette del mattino, nel centro dell’Aquila deserta, vidi una donna in tulle rosso fuoco attraversare via Paganica. Era pallida e camminava senza fretta, fumando, a filo di transenne. Non so ancora dire se fosse vera o un’apparizione. Certo, somigliava a quella che avevo visto a Pico Farnese accanto alla casa vuota di Tommaso Landolfi, il poeta degli abbandoni. Le case della città perduta erano bagnate dalla luce calda del solstizio, l’ultima neve splendeva sui monti, i tigli erano in fiore e tra le rovine crescevano fiordalisi. L’Aquila era di una bellezza sconvolgente, quasi greca.

La donna camminava fumando e d’un tratto mi accorsi che, a cento metri, potevo sentire l’odore della sigaretta e il fruscio del vestito. Potevo distinguere l’alone di luce attorno alla foresta dei riccioli neri. Con un tuffo al cuore ricordai che solo le rovine desertiche di Kabul, dieci anni prima, erano riuscite a conferire una simile millimetrica evidenza – acustica, olfattiva e visiva – alla passaggio solitario della persona. Come Kabul, l’Aquila era vuota di rumori e di odori; per questo la visione era stata così perfetta e totale. Mancavano i cigolii, la voce delle stoviglie, l’odore del forno e della cioccolateria. I campanili tacevano. Non c’era anima viva.

Aspettai un risveglio. Ma alle otto nulla si muoveva. Alle nove stessa cosa. Niente voci e niente odori umani. Passarono cinque grossi cani in branco. Si sentì il miagolare di un gatto e un gran cinguettio di passeri. Tutto diceva l’inesorabile avanzata della natura nel vuoto lasciato dall’uomo. Ebbi improvviso bisogno di un rombo di motoretta, di una lite fra comari, del colpo di martello di un falegname e persino di un’autoradio a volume esagerato. Ma quando alle dieci mi raggiunse Patrizia Tocci, anche lei orfana di casa, cominciammo a parlare a bassa voce senza ragione apparente. Non volevamo disturbare il letargo delle pietre, e ci bastava un bisbiglio per capirci. In zona rossa all’Aquila si entra e si tace. Ci si lascia la vita alle spalle. In zona rossa un colpo di tosse è un tuono, il trillo di un telefonino un rimbombo.

Ai piedi dei muri transennati di Santa Maria Paganica solo la fontanella cantava, e così quando venne Enrico, un bimbo di 10 anni col papà e un pallone, mi misi a giocare con lui solo per rompere quel silenzio cimiteriale, farlo a pezzi a pedate. Giocammo per il gusto di percuotere le pietre, e l’eco delle pallonate rimbalzò per una buona mezz’ora fra il portale trecentesco della chiesa e la soglia barocca del dirimpettaio palazzo Ardinghieri, venerabile magnificenza dal tetto sfondato. Ma era dura competere col vento d’Appennino che faceva da padrone, strattonava i teloni tesi a coprire i restauri. Eravamo un veliero semivuoto in alto mare.

La città del silenzio aveva sue vestali. Come altri magnifici abbandoni, anche qui erano spesso le donne a custodire la memoria. Alla cantina del Boss, affollatissima, sotto i muraglioni del castello poco, la bionda Nicoletta Rugghia mi versò del Montepulciano e fece un memorabile elenco di ciò che era per lei la vecchia Aquila. Città, disse, è la vicina malfidante che spia dalle persiane, è lo sfaccendato, è il ciclista monomaniaco, è la signora invidiosa dei vasi di fiori altrui. Città è il dirimpettaio arrogante, il fornaio che ti frega cinque centesimi al cartoccio; città è gli sposini timidi, il postino che canta sempre, il collezionista di francobolli. “Città è questo, questo io amavo. E questo oggi non esiste più”. Fuori l’aria era tiepida, ma la città era fredda. Sfiatava miasmi umidi dal fondo dalle sue cantine.

Fu allora che Patrizia mi svelò uno dei mirabili segreti della sua città. In via San Martino angolo via dei Lombardi, in piena zona rossa, tra le macerie di altre case, c’era un palazzo quattrocentesco intatto, appartenuto a tale Jacopo di Notarnanni. Ciascuno spigolo mostrava due piccoli gigli in ferro battuto. Erano abbellimenti delle catene antisismiche tese da secoli dentro i muri maestri. Poi vidi che ce n’erano dappertutto in città, seminascosti dai ponteggi. Erano una decorazione, disse Patrizia, ma anche un ex voto. Un simbolo di purezza dedicato alla madonna, perché il terremoto del 1703 era avvenuto il 2 febbraio, giorno della Candelora. Erano stati quei gigli incatenati fra loro a salvare molte parti dell’Aquila nel 2009. Ma vallo a spiegare ai talebani dell’antisismico, invasati da furia risanatrice.

La sera del solstizio venne con grilli, vibrare di luci lontane e respiro di tratturi. Gli uomini senza più città mi avevano adottato, offerto le loro case di ormai definitiva emergenza. Mi sembrava di conoscerli da sempre. Paolo Rosati mi invitò a cena, suonò alla chitarra una delle sue canzoni di nostalgia e la sua compagna Maria Gabriella Ludovici tirò dal forno una casseruola di melanzane ripiene. Poi andammo sulla montagna fino al castello d’Ocre, dove aspettammo il buio a strapiombo sul paese di Fossa e la faglia assassina. Il cielo era arancio e viola. Da lontano, la nebulosa dell’Aquila era ben visibile col suo buco nero al centro. Il castello, già sfiancato dai secoli, era stato beccato in pieno dalle scosse del 2009. Solo un torrione restava. Il resto era un mucchio di massi instabili simili a tibie, scapole e teschi umani. Inciampai, caddi, non riuscii a salirlo. Ocre era la quintessenza dell’Abruzzo. La rovina di una rovina.

La Luna andammo ad aspettarla sulle Pagliare di Tione, un pascolo di quota da cui nessuna luce umana era visibile. Il Sirente navigava come un transatlantico spento in mezzo a milioni di stelle. Solo dalla parte della valle Subequana un tenue pulviscolo dorato ancora resisteva. Vedemmo passare un cervo, una lucciola mi si posò sulla mano destra, svegliammo uno scorpione dietro l’uscio, poi sentimmo il richiamo dei lupi. Nella baita di Paolo c’era solo qualche candela e accendemmo il fuoco nel camino. Poi raccontai delle case del vento di cui l’Italia era piena. Dissi di Paolo, l’amico che per tutta la vita aveva voluto un faro abbandonato per vivere e poi aveva scelto un faro solo per morire.

Fu allora che uscì la Luna, dalla parte della Majella, la grande montagna madre, e dentro il mantice dei polmoni sentii gonfiarsi un canto silenzioso d’anarchia e di furore. Diceva: tornatevene aquilani, disobbedite ai divieti. Tornate prima che la città muoia, diventi archeologia. Tornate e riprendetene possesso con le vostre cose, i vostri rumori e i vostri odori. La zona è rossa, ma di vergogna per come viene preclusa ai vivi. Non consentite che le vostre strade diventino terra di cani. Sentite come il luogo vi chiama, come tutti i vostri morti vi chiamano. Non accettate di essere esuli in casa vostra. Non lasciate sole le vostre pietre.

Poi restammo in silenzio, ad ascoltare lo scricchiolio delle stelle.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz e Patrizia Tocci a caccia di gigli, nella zona rossa dell'Aquila.

 foto di Alessandro Scillitani

 La Repubblica 12 agosto 2011

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