Ormai qualche libro l’ho letto e qualcuno l’avrò anche scritto. Mi concedo una pausa dalla colfitudo, dalle ragioni degli altri, dai personaggi in cerca d’autore e scrivo di poesia. Sento già dall’altra parte qualche espressione preoccupata: no, non è una lezione sulla poesia. È regalarvi, ancora una volta, quello che mi è stato regalato. I poeti e le poetesse sono esseri normali. Smettiamola con gli scapigliati e i disperati, lasciamo da parte le correnti letterarie. Il poeta è un nevrotico, forse. È uno che guarda il dettaglio. Lo stesso dettaglio che tutti vedete ogni giorno ma che non sapete guardare. Il poeta ci perde del tempo , a guardarlo. Lo fa per scrivere con parole quello che anche voi sentite. Le emozioni sono le stesse. Che si tratti di un cielo abbuiato e nuvoloso, o di uno splendido tramonto. Che si tratti dell’innamoramento o dell’amore, della vecchiaia, della gioia o della solitudine, del dolore . Ha occhi allenati per alcune cose. Altre le sfiora appena. Alcune proprio non le vede. Ma guarda, guarda lungamente e aspetta le parole , per giorni. Quella parola esatta, quella che si fa attendere per anni. E quando arriva è un’epifania: solo quella poteva inserirsi nell’intarsio. Il poeta è una persona come noi. Piccola e brutta, bella e simpatica, antipatica, permalosa, sorridente. Ci somiglia. Nel bene e nel male. Ma lavora con le parole, giorno e notte (labor limae) : si confronta con secoli e secoli di poesia, per ogni verso che scrive. La poesia è folgorazione. È un fulmine a ciel sereno. Quando leggi un bel verso, senti che da qualche parte si squarcia qualcosa. Perché ci sono molte dimensioni dell’esistere. Da qualche parte, dove? Nel cuore, nella mente, nel cervello, nello stomaco…Forse non lo sapremo mai, dove è posizionato quello che chiamiamo il nostro io e che vive con noi.
Il poeta non è un bambino né un vecchio: si perde nel presente e lo attraversa, lo semplifica. Riesce a parlare di inezie e a farle sembrare importanti. Un poeta, l’infinito lo porta dentro di sé e lo sa, da sempre. Dalle prime poesie pasticciate, quando capisce che non è la rima baciata o alternata, a fare poesia. Dalle prime esperienze di metrica, quando capisce che la struttura del verso può essere una gabbia o la liberazione. Il poeta lo sa che non è nella forma, il rebus della poesia. È in un attimo, in un dettaglio che ha saputo imprigionare, in un colore che ha nominato o creato per primo, nell’eco di una nostalgia profonda per un tempo innocente e completo.., un mosaico dove tutti i tasselli erano a posto e rilucevano. Quel mosaico, ogni tanto , il poeta lo intravvede. Sa di farne parte, ma non ne conosce il disegno complessivo. Ha la sua pietruzza colorata che somiglia a tante altre pietruzze, ma solo la sua potrà entrare in quel punto del disegno che è già stato preparato. Nessuno sa però quando il disegno verrà completato. Così i poeti e gli scrittori si stringono le mani, da un secolo all’altro, si scambiano informazioni sulle pietruzze e sui colori. Alcune pietruzze sono d’oro e d’ambra. Altre di turchese o di smeraldo. Altre più semplici fatte di terre dai colori luminosi. Qualcuno sostiene che il disegno sia simile a quello del dio Pantocratore, sul pavimento di Otranto. Anche io credo sia molto simile. Tutti i poeti del mondo attaccati ad un unico albero, e tutte le foglie di diverso colore e forme. A volte lo calpestiamo, quel pavimento, anche senza rendercene conto. Ma proprio per questo brilla sempre di più. Come queste nuvole di cielo.
Patrizia Tocci©