Un angelo alla mia tavola

Come chi ha osato un gesto – quell’ardimento, quella tracotanza e insieme timidezza che prima lo ha spinto in quella situazione ed adesso lo accompagna nell’indietreggiare; e non è solo la misura dello spazio percorso in avanti da rifare  all’indietro, perché c’è ancora posto per un altro  spazio-tempo( km o secondi, non fa differenza) che bisogna riguadagnare, prima della linea di partenza; quel luogo in cui vergognarsi di aver osato tanto  e considerare ridicole le parole, i pensieri , gli oggetti i segni e i sogni inviati in quella direzione.Uno scarto, un passo all’indietro, meditato, rispetto a quello sconsiderato del portarsi avanti, in cui coesistono vergogna e dispiacere, odio e compassione per l’altro e per sé, in una specie di rancore senza ragione e senza fine.

E che cos’era allora la sua scrittura se non avere sempre presente l’assenza, gli assenti? Se non avere occhi nascosti come punti di riferimento, occhi estranei eppure sempre così confidenti, con i quali fare i conti ad ogni ora del giorno e della notte … E che cos’era quel nome,  inciso su una corteccia di tiglio, poi cancellato e per questo ancora più evidente, scritto su un foglio a quadretti di un notes che non sapeva annotare, su un foglio di giornale piegato in quattro perché diventasse poi una barchetta e  salvarsi,  sulle acque della memoria … Un nome così piccolo che aveva chiesto,   ogni giorno,  più spazio, aveva tolto l’aria e fatto venire fame, per poi tramutarsi da un momento all’altro nel silenzio dell’assenza.

Allora , si era come spento il fiume;  bloccato da una diga tirata su  in tutta fretta,  di notte. Oh, non che non avesse visto i grandi lastroni di cemento, poggiati sulle rive, non che non avesse sentito gli operai sciamare, laboriosi; non che non avesse visto salire prima del tramonto le beffarde e lucenti impalcature. La rete del silenzio era stata calata. Un filo di bava e di saliva che un tempo era miele di parole e invece s’era trasformato in filo di sutura, perché si chiudesse quella profonda ferita. Del resto,  solo chi ami può ferirti.

Le lucciole erano scomparse dal grano. L’anno stava per scendere dalla sommità del suo crinale. L’estate sarebbe presto naufragata in un cumulo di foglie e di bugie. L’attimo, il Kairos era passato. I giorni sarebbero stati soltanto giorni, non sarebbe stato più necessario contare gli intervalli tra il dolore e il piacere, tra il dolore e il dolore. Sarebbe cominciato il tempo della Ri-lettura, del Ri-passo, del Ri-cordo.

Esitava ancora , come fanno  i bambini sullo scivolo, un po’ per paura un po’ per dilazionare il piacere-dolore. Scesa a terra, il cuore le sarebbe arrivato in gola, e l’aria le sarebbe mancata. Ma solo per un attimo.

Lei sapeva che non si sfugge al destino del proprio Nome. Ogni tentativo si era dimostrato vano. Era ricca, di una ricchezza enorme ed incomunicabile: dentro, tutto era sempre presente. Il tempo veniva continuamente blandito ed ingannato. C’erano i primi calzini bianchi dell’infanzia, con l’elastico allentato. La prima borsetta. Verde, spugnosa, elegante. La prima parola che era riuscita a compitare da sola, già all’asilo. L’odore della mentuccia e il sapore della neve, il profumo umido del  trifoglio falciato e lo scricchiolio  del fieno, l’aria croccante dell’estate, il pane appena sfornato, le mele che maturavano  nelle cantine e la polvere d’oro del grano.

La prima volta che ho alzato gli occhi al cielo e   la voce, ora  assente,  mi indicava  il Nome e la costellazione. Le prime volte che ho sentito crescere il mio seno. Quando camminavo,  facendo ondeggiare la coda di cavallo.

La scuola, con quei soffitti altissimi e le parole di cui avevo sempre fame, scritte sul mappamondo. L’odore  amaro della legna umida che si univa alle sigarette di mio padre; la mano che chiudeva la cenere a fontana sulle ultime braci. L’odore del grembiule di scuola, nero, il liscio del primo  fiocco blu, il duro colletto inamidato. L’odore dei pastelli tutti in fila nella scatola. L’odore del fiume e l’odore delle stoppie bruciate.

I miei primi racconti. Le mie prime fatiche. Ed ero sempre altrove.

Altrove-dove?  Altrove, qui.

In mezzo alle foglie leggere dei pioppi, lungo il serpente dell’acqua. Altrove. In quel  mondo minuscolo che ho da sempre portato con me: dentro e dietro, un piccolo zaino sulle spalle,  che nessuno vede, dove però c’è sempre un dono per gli ospiti, un souvenir, una parola.

Le parole. L’altro. Il luogo che è altrove. L’altro che è altrove. Ho limato le parole perché crescessero forti, potando i rami secchi; qualche volta ho sognato di lasciar crescere lussureggianti inutili improbabili fiori, fiori che non sono mai nati. Eppure,  anche così sono  stati amati: ho amato persino i viticci, quando mi  si sono avvinghiati alle  dita e per qualche tempo mi hanno tolto la voce e la scrittura. Aria, fame, acqua. Per sale, la luce del giorno e l’olio denso della notte. Anche qui,  ( qui, dove?) le foglie dei pioppi hanno lo stesso fruscio di carta leggera. Saranno pagine e pagine. Anche qui, qualche cane abbaia lontano. Qui, dove?

Anche i cani forse sognano e guaiscono. I sogni portano sempre dolore. Arano l’anima e poi,  ti lasciano così. Magari c’era troppo sole e il seme si è seccato. Magari hai lasciato troppa acqua ed è marcito. Magari non era il tempo giusto, il suo tempo. Non tutto ha sempre una spiegazione. Ci sono cose che semplicemente non accadono, non accadono più. Si torna indietro, allora e quello spazio minimo, quel millimetro costa da morire.

Ti toglie l’aria e ti toglie l’acqua . E’ il prezzo da pagare, quando ci si lascia visitare dai sogni. E l’angelo – l’ultimo che si è seduto alla mia tavola  –  sostiene che il messaggio era stato consegnato, ha chiamato a testimone il libro ed il profeta, ha capovolto il senso di ogni mia parola.

Ma io le tocco le parole, e anche ad occhi chiusi so riconoscere quelle dell’assenza. Conosco i puntini della lontananza, gli echi disperati del silenzio.  Li porto sempre  con me, dovunque vado.  Solo con la punta delle dita,  faccio una carezza. Come  l’autunno,  quando finisce l’estate. Non lo vedi ancora,  ma già c’è. Aspetta, solo per darti tempo. Ma arriverà. E dalla parte opposta  da dove  stai guardando. Lascerà le ghiande nel tuo zaino,  e le castagne a terra per segnare la strada dell’inverno, per riportarti a casa.

Patrizia Tocci ©riproduzione riservata

 

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Informazioni su pat1789

Patrizia Tocci nata nel 1959. Ha al suo attivo 7 pubblicazioni: poesie, romanzi e racconti. Scrive su riviste e giornali, si interessa di poesia e letteratura, collabora con Il Centro, quotidiano regionale abruzzese.

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