GLI SPERDUTI

I miei sperduti raccontano un po’ malvolentieri, con una sigaretta perennemente accesa tra le labbra. Le donne ridono forte, ma hanno una piega amara sulla bocca. Fino a poco tempo fa, affidavano memorie ed emozioni ai pixel colorati, che volavano nell’aria e attraversavano mondi. Ma qui si sfracellano   contro le   montagne più alte, qui  dove non arriva il segnale, dove i cellulari tacciono e internet è una parola senza senso. Tra  lingue ghiacciate  di neve si respira un’aria libera dalle frequenze distorte. Quassù  arrivano le anime dei giganti che vanno oltre, portate dagli sherpa piccoli e bassi ma pieni di forza nei loro muscoli scattanti. Anche loro parlano una lingua incomprensibile e sono gli ultimi testimoni di un’altra antica civiltà, camminano sulle mulattiere, in questa zona  tutta offline. Qui abitano  i  cuori giganti, quelli scomparsi al tempo della grande solitudine.Fu una guerra silenziosa  con un  nemico  che non aveva braccia, gambe e  occhi ma  pallottole terribili:  squarciavano il petto e si dovette stare chiusi in casa a lungo. I cecchini  avevano una mira precisa e implacabile. Così passò l’ estate e  l’inverno  nella  mia città;  molti  giganti scomparvero in un soffio. Incredibile come la loro mole non sia stata sufficiente per  tenerli al riparo. Conoscevano la musica e la matematica, sapevano leggere e scrivere  montagne di libri e di lettere, avevano un cuore che batteva come un orologio a cucù. Qualcuno  sapeva tutti i nomi degli uccelli e dei fiori. Altri erano stati costruttori di ponti e cattedrali, avevano inventato logaritmi e spiavano i satelliti nel cielo. Eppure neanche questo bastò, ai tempi della pazza solitudine.. Ma altri si incontrarono con me  in segreto in un bosco e decisero che bisognava conservare la memoria della troppa solitudine per quando  sarebbe stato possibile  di nuovo abbracciarsi, toccarsi e sfiorarsi,  parlarsi, seduti ad un caffè, tra amici, mentre il fumo della bevanda scura scaldava la tazzina e le  mani. Bisognava   documentare   la zolletta di zucchero  che si scioglieva   con infinito piacere nel mare scuro,  il tintinnio dei bicchieri, sporchi e puliti, la melodia  quella dei  viali affollati e dei  i saluti, le conviviali, le aule vocianti, pugni di persone davanti a un tavola imbandita, le preghiere.  bisognava raccogliere la  solitudine affollata di pensieri, doveva restare traccia delle canzoni cantate dai balconi,dei  piccoli  e grandi gesti di solidarietà e di speranza. Schede precise, con nome , cognome e colore degli occhi dietro la mascherina, quelli che lottavano in prima fila. Costruiremo una zona sicura, ci siamo detti: un quadrilatero perfetto in cui il nemico non avrebbe trovato posto. Per il momento, l’acceso è limitato.  Solo i bambini che ancora vivono  nell’altra  parte del mondo, possono  venire a visitarci, accompagnati  da qualche maestro o maestra c attento all’ inganno e alla bellezza della memoria. Oggi  è appena arrivato uno sperduto che suonava la fisarmonica. Quelle note  risuonavano a   lungo nel silenzio  di un  paese,  un filare di  panni stesi attraversava  la collina. Si chiamava Nicola  ed era un uomo allegro e scherzoso, facile al sorriso. A modo suo, un gigante. Da anni costretto su un letto.  E nonostante tutto, ogni tanto, ancora le note della fisarmonica  sorvolavano i tetti lungo il pentagramma a cui erano appese le rondini. Scavano, questi giganti, vuoti  dentro di noi, quando non ci sono più. Cunicoli  in cui tentiamo di riacciuffare l’ infanzia  al volo, insieme al calabrone   o al maggiolino; costringerli legati  ai fili, senza pietà, con la cattiveria sana dei bambini. Da  questa parte del Mondo, ogni persona è un intero schedario, con voci che gli appartengono e lo collegano ad altri. La prima volta che ha scoperto una parola, che ha imparato a compitare e a leggere  ad alta voce;  la prima volta che ha fatto l’amore, il viso di quell’ uomo o quella donna stravolto dal piacere, i boccali di birra schiumanti  in compagnia, la nascita del primo figlio, la fierezza di un lavoro e di un mestiere, la bellezza di una ruga nata dopo un grande dolore. Annotiamo le gocce  di pioggia tra i capelli, il sentiero  del bosco,  il  silenzio delle ragnatele,  le insonnie notturne, il  calore dell’ amicizia e della solidarietà tra gli uomini. Persino il gesto di inforcare quegli occhiali tutti sgangherati per leggere un buon libro, ai tempi della spessa solitudine. Tutto  viene  annotato  dalla compagnia dei Bibliofili. Anche  io ho cominciato a riempire le mie schede. Qualcuno deve pur farlo. Quando  veniva il Circo nel  mio piccolo Macondo, quattro girovaghi con un tendone, montavano la giostra e i seggiolini viaggiavano nell’aria. Girava anche la testa con le melodie e le canzoni per l’estate, rapide promesse ed occhiate gelose al ritmo dei primi balli. La giostra arrivava alla fine dell’ estate, quando ormai l’aia era libera, il grano mietuto e trebbiato. Nelle narici l’odore delle stoppie, la luce d’oro. Molte schede di giganti sono ancora da riempire. Una abita qui con me. Mi suggerisce sempre nuove schede e non mi da un attimo di riposo.  Ogni tanto la sua memoria  gioca  con altalene da brivido e a volte ride, a volte piange in questo pendolo incredibile che disegna la nostra circonferenza. Io schedo ordinatamente le emozioni in una giornata: irritazione, dolcezza, affetto, pensiero, ricordo. Mi sembra di stare sempre  su quei seggiolini  e tutto vortica attorno, tutto gira e io vorrei andare un po’ più piano, ma le stagioni rotolano. E allora ho deciso che dopo aver scritto tutto,  andrò in giro, ovunque nei mondi, cercando una fiera di paese. Voglio sedermi ancora su quei seggiolini, vorticare e pensare che il mondo tornerà a girare  come sempre, ( lo fa anche quando noi non lo vediamo,  di nascosto.).E allora sarà finita questa grande solitudine e saranno tornate le cose di dopo, quelle che ci tengono nel giro della notte e dei giorni e  ci aiutano a sorridere.

 

 

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