Le rondini ( Carboncino)

IN TERRA D’ABRUZZI ( Patrizia Tocci)
Non so se le avete viste. Io sì, mentre tornavo da una di quelle passeggiate in cui ogni tanto sciacquo i pensieri. Puntini neri in un cielo che si apre e si chiude e passa, come è giusto che sia, dall’ azzurro di vetro veneziano al grigio cenere, in un quarto d’ora. Sfrecciano veloci con quel frullo particolare, tra le porzioni di cielo che a fatica si intravedono tra gli alti palazzi. Sfrecciano nei ricordi, mi riportano in un piccolo paese, in cui ancora tornano e fanno giostre circolari attorno al campanile. Come in un disegno infantile, rondini bianconere. E per somiglianza cromatica, torna in mente il grano per il sepolcro. Le donne seminavano in inverno chicchi di grano in un vaso e lo tenevano in un luogo buio; il grano cresceva bianco, per ornare il Sepolcro in chiesa, dove c’era la statua di Gesù morto, a cui si cantava la via crucis nelle navate oscure. Stabat mater… Penso a mia madre, a tutte le madri, alla cura e alla fatica per allestire il nido per le covate. Alla pazienza infinita di attendere le partenze e i ritorni della prole. Anche queste hanno sfidato le perturbazioni atlantiche, sorvolato distese di terra e acqua per approdare qui. Piccoli rumori sul mio tetto, immagino stiano ricostruendo il nido. Amo le rondini perché sono gli ornamenti di questo cielo primaverile che si rabbuia e splende con velocità . Le amo perché annunciano la bella stagione, come dice Flaiano: “non c’è che una stagione, l’ estate. Tanto bella che le altre le girano attorno. L’ autunno la ricorda, l’inverno la invoca, la primavera la invidia e tenta puerilmente di guastarla.” Le amo perché sono migranti, ignorano i confini degli Stati nazionali, non hanno passaporti e conoscono tutte le lingue dei paesi che attraversano. Vanno, tornano e ritornano. Certo io non posso sapere se sia proprio la rondine dello scorso anno, questa tornata a fare il nido sopra il mio. Ma mi piace pensarlo.

Capelli bianchi ( Carboncino )

#Carboncino
Dal parrucchiere. Lo stesso, da qualche tempo, ormai. Le storie ci sono già, nell’aria tra una piega ed un colore. Il luogo invita all’ intimità, ci sono libri ovunque; è un ambiente accogliente, in cui parlare e raccontare di sè. Ma io spesso ascolto.Lei potrebbe chiamarsi Ada, Filomena, Concetta, Giuseppina, Maria, Secondina: nomi che non si usano più, quasi scomparsi dall’ anagrafe, sorpassati dai vari Deborah, Samanta, Asia; e che hanno il sapore del secolo passato, del millenovecento. Ha novant’anni e sta dritta come un fuso, qualche dolore al ginocchio. Sei figli, sì. Una bella testa bianca, una pelle da bambina. Il marito? Ne ha 96. No, non ha lavorato: ma ha cresciuto sei figli, che ora lavorano tutti, dice con orgoglio. È una immagine molto familiare per me: donne che ricordano tutto di cinquant’anni fa e dimenticano l’ ora dell’ appuntamento per il taglio. Ha un sorriso bellissimo e due occhi che brillano, dietro gli occhiali. La stessa fierezza che fatto grande L’ Italia: da un paese in guerra ed in rovina, a una nazione che fa parte del G8. No, non uso creme, ci dice della sua pelle quasi perfetta e smentisce quintali di pubblicità miracolosa. Una vita che si è aperta agli inizi del novecento, ha visto la seconda guerra mondiale, passata attraverso la ricostruzione, il boom degli anni sessanta, la caduta del muro di Berlino. Donne forti, magre e nodose come quei gerani di montagna, quelli che colorano, con i loro ombrelli rossi, i balconcini di quelle case basse e spiccano, tra la pietra e i colori scuri. Sopravvissuti ai rigori invernali, alle variazioni brusche di temperatura: magari perché qualche mano di donna li ha ricoverati, durante l’inverno, in un posto giusto, al buio e al caldo. E a primavera, basta un raggio di sole, ed eccoli, pronti con i loro bocci, con quei mazzetti di fiori rossi. A testimoniare che la cura per gli altri è forse l’unico elisir di lunga vita.

Pubblicato oggi su #ilcentro quotidiano regionale abruzzese. Grazie sempre al direttore Piero Anchino, un saluto particolare a Sinfonia Parrucchieri @elena ventura , alla mia mamma geranio e alla signora Maria

come è profondo il mare

Venditori ambulanti sulla spiaggia

Com’è profondo, il mare.

Appena lasci alle spalle il vialone trafficato e strombazzante, vedi subito la linea del mare. Te la indicano come una freccia le palme altissime che sembrano minareti sull’ orizzonte cittadino: un nastro più scuro che separa nettamente il cielo dal mare. I due azzurri si specchiano e si insidiano; si riflettono uno nell’altro per sfumare laggiù, dove l’occhio non arriva ma il desiderio sì. Qualche vela bianca triangolare trasforma tutto in un poster. Anche stavolta raccoglierò qualche conchiglia dalla mareggiata di ieri, una madreperla, un legnetto leggero, un sassolino particolare. Eppure non puoi togliere nulla dall’ acqua e dal mare. Subito le cose perdono luccicanza, diventano banali; muoiono i riflessi madreperlacei, l’iridescenza che ti aveva attirato. Finiranno con altre in fondo a quel cassetto buio della scrivania, insieme a souvenir di terra.
La spiaggia è già piena, il mare piatto. Già tutta spalancata, la foresta di ombrelloni e palme; sotto, bagnanti seminudi e costumi policromi. Ronzìo da alveare: di miele e di abbronzanti appiccicosi profuma l’aria. In alto aquiloni leggerissimi: a terra, sdraio e lettini circoscrivono uno spazio in cui si convive un po’ a fatica, come nei condomini. Un uomo atletico e abbronzatissimo fuma nervosamente; un nugolo di bambini seppellisce, come gli indiani Sioux, un piccolo nemico ferocissimo. Il rumore del mare si percepisce appena, in mezzo al frastuono di palloni che sfuggono a provetti calciatori, ai nuotatori in fila Indiana che si tuffano nel mare che, bontà sua, ci accoglie indistintamente nel suo grande abbraccio. Brutti belli magri vecchi giovani timidi sfrontati bianchi neri. Il mare è una specie di livella: azzera le convenzioni sociali e ci mostra così come siamo, nudi, inermi, fragili. Umani.
Forse ci ricorda quando eravamo poco più di un girino, nel ventre scuro di una donna. Ci rimette in sintonia con quel battito del nostro cuore, con il respiro del mondo. Persino i piedi, che normalmente costringiamo dentro oscure e strette scarpe rigide, godono della ritrovata libertà. Se ne stanno leggeri sulla sabbia e recuperano un gusto, una sapienza del camminare che avevamo perduto; la pelle riacquista i suoi sensori sensibilissimi e ci avvisa. Che delizia dimenticarsi nella sabbia tiepida, perdere tempo per perdere tempo. Che delizia abbandonarsi all’ acqua inizialmente fredda e poi passare a sentirla tiepida e poi calda. Tutto il nostro corpo riscopre l’essenzialità, recupera una dimensione infantile che credevamo perduta, ci regala impressioni, piccole variazioni, emozioni.
I bambini, tradizionalmente ancora armati di paletta e secchiello, presidiano con pervicacia il bagnasciuga; tra la sabbia e l’acqua crescono castelli. Costruzioni temporanee ed effimere, piene forse di creature magiche, pronte ad andare in rovina da un momento all’altro. Eppure stabilmente dentro il tempo della vita, quello che guida, come una meridiana nascosta, i nostri passi.
Guardo la sabbia e respiro, come fosse un piccolo giardino zen. Cerco di non sentire la telefonata lunghissima all’amica dell’ amica. Mi concentro sugli infiniti granelli di sabbia: piccoli avvallamenti mi ricordano le dune, il deserto. La colpa è anche del sole che costruisce ombre dolcissime. Non ho mai visto il deserto, ed è un viaggio che vorrei fare. Conosco soltanto deserti di neve, silenziosi, immobili, in cui emergeva a fatica qualche piccolo segno nero; su quel foglio bianco appena si intravedeva un filo spinato, la testa di un girasole ormai secco, qualche albero scheletrito. Un orizzonte chiuso tra montagne bianche. Quello della montagna è un orizzonte cupola: ti accerchia e ti raccoglie, con grande affetto ma un po’ ti imprigiona. Il deserto e il mare devono avere invece orizzonti simili, ti spingono sempre a pensare che dall’ altra parte ci sia ancora terra e mare, mare e terra. Ogni volta che vedo il mare – la memoria letteraria non mi da tregua – penso ad Omero e al greco: Talassa, sostantivo femminile. Forse da quel liquido amniotico tutti discendiamo, e attraverso passaggi ed odissee, ci trasformiamo da girini in uomini e donne, adulti o bambini, e frequentiamo le spiagge.
Un suono diverso, un richiamo sorpassa l’intensità del rumore: è un saluto incomprensibile ma cordiale, un torrente di sillabe e parole: due simili si sono incontrati e riconosciuti. Hanno vestiti leggeri e scarpe pesanti, sepolti sotto innumerevoli oggetti tra i quali spiccano lunghi e colorati i teli da spiaggia. Due arcobaleni si avvicinano e si abbracciano. Dopo l’abbraccio inizia un fitto dialogo che non capisco, ma posso intuire. E immagino: case lontane, altri che restano ed aspettano; immagino altri cibi, suoni e colori. Loro, invece, sono qui. Si attardano ancora nel colloquio, ormai diventato quasi un sussurro: sembrano due statue altissime, due baobab. Poi scacciano via la nostalgia, insieme ad una mosca fastidiosa e si salutano; le braccia riemergono, si alzano, si riempiono ancora di cianfrusaglie. Si separano in direzioni opposte. Attraversano con abilità foreste di corpi chiari, dribblano con delicatezza ombrelloni e dormienti.
Camminano e camminano e si portano dietro, insieme ai colori della nostalgia, anche quello della mia giornata.

Ricordi di scuola

Una delle più belle e originali dichiarazioni d’ amore che io conosca è stata fatta grazie al telegrafo, in un piccolo paese di montagna. Sembra uno di quei copioni teatrali dal sapore perduto: il maestro della scuola elementare manda un messaggio d’ amore attraverso il telegrafo con richiesta di nozze all’operatrice del locale ufficio delle poste. Fu artefice di questo romantico gesto ( così mi racconta Dante Capaldi, una vita anche la sua trascorsa nella scuola) il mio primo maestro delle elementari: si chiamava Avelio. Da mocciosi ci trasformò in ragazzi e ragazze. Era facile all’ ira, soprattutto con i più indisciplinati; ma anche alla dolcezza. I segnacci rossi che lasciava sui nostri compiti sembravano tanti pioli su cui bisognava salire. Facevamo colazione e ricreazione nel giardino della scuola, una masnada di bambini: qualche scapaccione affettuoso per riportare l’ordine in una pluriclasse mista, dalla prima alla quinta. Anche I miei ricordi sfilano a volte con il nitore ordinato di un abbecedario : la cartella marrone, il sussidiario, il mappamondo rotondo, le cartine alle pareti altissime, la stufa enorme e quel freddo di una piccola scuola di montagna. Ho ritrovato il maestro Avelio molti anni dopo e non fu facile riassumere in poche parole tanti anni, né per lui né per me. Un maestro è qualcuno che ha avuto fiducia in te, ti ha aiutato a crescere: questo fanno, i buoni maestri, gli educatori. Sorvegliano, suscitano, intuiscono la potenzialità nascosta in ogni scolaro. Da insegnante mi capita di incontrare quegli sguardi, ogni mattina, anche quando cercano di nascondersi dietro gli zaini, dietro la frangia dei capelli o cercano di difendersi con un’aria annoiata. Gli amori e gli odi, le domande e le risposte sono le stesse. Si cerca di crescere, insieme . Così sembra, quasi, di non invecchiare mai. Dal primo maestro, agli altri che ho incontrato nel mio percorso. E che vorrei ringraziare così.
©️Patrizia Tocci pubblicato su #ilcentro
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