“MEMORIA NON è PECCATO, FINCHè GIOVA”

GIOVEDÌ, 20 FEBBRAIO 2014 -IL CENTRO – Pagina 19 – L’Aquila
Patrizia Tocci: guai a perdere la memoria
La docente e scrittrice: il 6 aprile 2009 vidi morire la città, ora serve orgoglio, condivisione e senso di appartenenza
L’INTERVISTA 6/ CINQUE ANNI DAL TERREMOTO di Monica Pelliccione Tra le pietre antiche, sui muri lesionati dove si sono aperte profonde ferite, spuntano i gigli. Fiori di ferro, piantati qua e là. Se ne trovano a decine nel centro storico aquilano. Simbolo di una città battuta ciclicamente dal sisma. Emblema di una terra che non vuole arrendersi alla furia della natura. Patrizia Tocci lo sa bene. Nel 2006 ha iniziato a studiare il significato intrinseco di quei gigli, narrati a più riprese dalla poetessa aquilana, Laudomia Bonanni. Strani simboli legati alla storia passata, al sisma del 1703. Ma la storia ritorna, con il suo passato che diventa presente. La notte del terremoto i gigli erano sui muri, silenziosi. Tutt’intorno, devastazione e paura. Patrizia Tocci, quali ricordi riaffiorano alla mente, di quei terribili momenti? «La mia casa era in centro, vicino a San Pietro. Alla scossa delle 22,30 abbiamo abbandonato la nostra abitazione per rifugiarci in un camper posizionato vicino al cinema Movieplex. È da lì che ho assistito, inerme, alla morte della mia città. Pochi secondi per spazzare via tutto. Ricordo luci arancioni fiammeggiare nel buio della notte, mentre dal finestrino del camper vedevo cadere giù tutto: le case, i sogni, la mia terra. Ho capito subito che non avrei rivisto la mia casa, almeno non come l’avevo lasciata». Quando ha preso coscienza che qualcosa era mutato per sempre? «La mattina presto, all’alba, io e mio marito siamo saliti in sella a un motorino per raggiungere la nostra casa. Da fuori sembrava integra, in realtà dentro era completamente lesionata. Un gesto d’impeto, quello di correre in centro, quasi irragionevole. Tutti erano andati via, fuggiti e il quartiere era già deserto. Continuavo a telefonare al mio numero di casa, solo per sentir entrare la segreteria telefonica, che avevo attivato da poco ed era ancora in lingua danese, perché non avevo trovato il modo di inserire l’italiano. Sentire la voce della segreteria mi dava calore, quasi fossi di nuovo a casa». Ma il centro storico era un ammasso di macerie: un’immagine indelebile di dolore e disperazione. «Ricordo solo macerie, frontoni caduti, ovunque massi e polvere. Mi sentivo impotente e fragile, pervasa da un’incredulità che non mi dava tregua. Continuavo a guardare la città con gli occhi della memoria. Per mesi mi sono portata dietro questa sensazione, rifiutandomi persino di indossare scarpe con il tacco. Era come se non riuscissi più a fidarmi della terra che calpestavo. Una sensazione che non mi ha ancora abbandonata». Nel 2012 è stato pubblicato il libro «I gigli della memoria»: una narrazione collettiva che ripercorre, attraverso 55 testimonianze, le prime ore dopo il sisma. Com’è nata l’idea? «In realtà, già dal 2006 avevo iniziato a studiare la presenza dei gigli sui muri della città. Quei fiori in ferro battuto che spuntavano sui muri degli antichi palazzi e che servivano a tenere legate le travi principali. Ho cercato nei vicoli e li ho trovati, molti. Ho scoperto che erano posizionati quasi sempre in alto, nei piani più elevati. Una passione, quella per i gigli, sbocciata leggendo Laudomia Bonanni, che riconduceva la loro presenza al terremoto del 1703. Ma il mio interesse era solo da studiosa. Mai avrei immaginato che, di lì a tre anni, la catastrofe si sarebbe ripetuta. Ho maturato l’idea di raccogliere delle testimonianza legate al sisma e al simbolo della città». I gigli come ricordo della terra ballerina e della forza della natura? «Una sorta di memoria storica: questo vuol essere il libro I gigli della memoria. Una testimonianza da lasciare ai posteri, che racconta le prime dodici ore dopo il terremoto. Voci vere, che hanno vissuto la tragedia e che non dimenticheranno, come tutti gli aquilani. L’Aquila non deve dimenticare perché la memoria è essenza stessa dell’identità di ognuno». Sono passati quasi cinque anni dal sisma, tra luci e ombre. Con quali occhi guarda adesso la città? «Vedo una collettività che non è più tale, disgregata, parcellizzata, senza un’identità. La gente ha bisogno di condividere la propria memoria. Abbiamo vissuto una cesura dalla quale è difficile riprendersi: il solco lasciato dal sisma è profondissimo e lo valuteremo solo nel tempo. Credo che, negli aquilani, sarebbe dovuto scattare un orgoglio maggiore, un senso di appaLIBRO GIGLI ROMArtenenza e condivisione che sono mancati. Si è ragionato sul filo degli interessi e delle divisioni». Una politica errata che rallenterà la ricostruzione? «Il più grande desiderio di ogni aquilano credo sia quello di veder ricostruita la propria casa. Per riavere la città ci vorrà del tempo, ma è necessario dare un’accelerata al processo di rinascita del centro storico perché la variabile temporale è fondamentale. Un anno in meno di attesa significa restituire prima ad ogni aquilano una parte della propria storicità ed esistenza». ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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Se i gigli aquilani potessero parlare

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Se NOSTRI GIGLI POTESSERO PARLARE.

Se i nostri gigli potessero parlare, ne avrebbero di storie da raccontare. Per esempio che la nostra è una terra ballerina e che proprio per questa ragione si trovano alla fine delle catene di ferro che passano attraverso i muri maestri in alcuni palazzi aquilani. Se i gigli potessero parlare ci esorterebbero a non dimenticare chi non c’è più, nella nostra città e a cercare sempre le ragioni per cui questo è accaduto. Se i gigli potessero raccontare vi direbbero che nel 2006 hanno visto per giorni camminare una donna che mi somigliava, con il naso in su e gli occhi in alto, per i vicoli e i quartieri di una città ancora integra: una donna che li stava cercando perché aveva fede nella parola di un’altra donna; e che li ha trovati, per prima, proprio per queste comunanze che le univano: aver abitato nella stessa città ed averla amata, conosciuta, descritta, salvata. Ogni parola infatti ci salva dall’oblio, ogni racconto resta come quei meravigliosi gigli in ferro battuto, ogni giglio nella sua peculiare diversità rimanda a una storia trascorsa. Ho deciso di raccontarla questa storia, così tante volte, con dvd, libri, articoli, trasmissioni televisive, che ormai la conoscete quasi tutti. Eppure c’è un ultimo regalo che vorrei fare alla nostra scrittrice Laudomia Bonanni e alla nostra città: vorrei che la sua rinascita, che sta cominciando lentamente, avesse come simbolo proprio questi gigli. I gigli sono da sempre simbolo di purezza. Così dovrebbe essere la ricostruzione : pura, limpida e netta come quei gigli. E sarebbe bello se su ogni casa ricostruita, insieme alla bandiera italiana , si affacciasse, per sempre, anche un giglio in ferro battuto. Un appello alla Soprintendenza: che conservi e valorizzi questi gigli e che nemmeno uno di essi venga perso nella ricostruzione. E se le tecniche di ricostruzione non prevederanno ovviamente le catene antisimiche, che questi gigli comunque diventino ( veri e falsi) emblema della nostra ricostruzione e del nostro futuro. Già l’immagino, una città tutta gigliata e su ogni muro, il giglio come simbolo della solidarietà di tutti gli Italiani che sono venuti all’Aquila lasciando un segno tangibile: un giglio come simbolo dello sforzo che in questo momento lo Stato sta facendo per aiutarci a ricostruirla la nostra bella città: e lo sguardo pieno di speranza, una cocciuta speranza di rimettere in piedi ciò che è caduto. Con la certezza di poterlo fare bene, in trasparenza ed onestà. È vero che adesso non si vedono più i gigli, soffocati come sono tra le travi di ferro o di legno, nascosti dai puntellamenti o dalla sete di guadagno. Ma i gigli crescono nel buio…E magari chissà, finalmente arriverà anche la primavera aquilana. Intanto chiedo ai possessori di gigli: conservateli bene, nel frattempo e metteteli al sicuro. Arriverà il momento che sbucheranno tutti insieme e di nuovo, al sole.

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Bisogna alzare gli occhi per vedere i gigli

Diario apocrifo : omaggio a LAUDOMIA bONANNI
La nostalgia? Forse è un viaggio nella macchina del tempo. Si torna ai luoghi. La mia casa natale, in via Garibaldi 75, ai balconcini dove tante volte mi sono affacciata. Quando ero bambina, le strade erano lastricate con grandi pietre bianche. Molti incanti si sono persi, molti sono rimasti. Si torna ai luoghi: dal balconcino osservavo il casamento di fronte: i prospetti rientranti, il giardino, il cancello, la fontanella barocca con la conchiglia. Dall’alto dei tre balconcini si godeva una bella vista della città: una cascata di tetti rugginosi che parevano accavallarsi. Invece in mezzo c’era un labirinto di sdruccioli e di chiassetti: del Guasto, delle Streghe, delle Stimmatine, dei Poeti, con le targhe sbreccate, appena leggibili. E’ sempre stato così con questa città; odio e amore, mescolati, inestricabili.
Rioni antichi, bifore per lo più otturate, residui di tortiglioni lungo le facciate di pietra, le aperture dei bassi a sesto acuto, sormontate da stemmi corrosi dalla simbologia complessa e misteriosa, in gran parte dimenticata; un angelo, lo scudo e nello scudo un’ala in volo trafitta da una freccia. Leoni duecenteschi all’ingresso di una chiesetta, il dorso lisciato ad avorio dalle cavalcate dei bambini, rosoni e portali del romanico più tardo, con gli acanti smozzicati dal tempo e dalle sassaiole.
Tutte le città hanno un anima. Conoscete quella della nostra città?
Se ve ne andate a zonzo per straducce e vicoli, vi accorgerete subito che non è una conoscenza facile. Ad un tratto vi sentirete il fiato grosso. Già, perché non si fa altro che scendere e salire. Siamo insomma in montagna anche dentro la città. Mi capitò per caso di scoprire, sulla facciata di una casetta medievale con bifore, un piccolo giglio nero in ferro battuto. Uno solo, verso lo spigolo di destra. Piccolo, stilizzato come il giglio fiorentino. E poi altri, alcuni più ricchi e anche più numerosi. Messi molto in alto, di qua e di la degli spigoli, a coppie, con petali spiegati, grandi a quattro petali esterni e quattro interni, nel mezzo il pistillo con capocchia. Secondo l’importanza della casa o del palazzo: vi stanno da oltre due secoli, a testimonianza e gratitudine per essere stati salvati dal terremoto del 1703. Fiore di devozione e per grazia ricevuta. Ma bisogna alzare gli occhi, altrimenti non si vedono. Il fiore del terremoto, ben battuto in solido ferro, sopravvive insieme alla memoria storica dell’avvenimento. Del resto il tempo è come l’acqua, si porta via ogni cosa in polvere.
L’infanzia … Ore taciturne accanto al fuoco; in montagna la gente sa guardare all’infinito il linguaggio della fiamma e il vorticare della neve, senza noia. Volevo raccontare la vita, quei piccoli fiori gialli che nascono nella spina di pesce a mattoni sulle scalinate delle nostre chiese, le violacciocche marroni che ogni anno spuntavano nei trafori del rosone e che mai mancavo di guardare. Nascevano in quel poco terriccio portate dal vento, quasi espresse dalla pietra.
Mi piaceva passeggiare, lentamente, a lungo. Quando non c’era nessuno me ne andavo dietro la chiesa, salivo e scendevo i gradini tondi di pietra, ripassavo sotto i tre archetti del Campanaro. A volte, ero quasi felice. Mi piaceva arrivare fino al Castello; dal bastione guardare le nuvole o il Gran Sasso, colorato dall’ultima luce del sole e pieno di neve.
Nella nuova casa, in via XX Settembre, di notte brillavano i grappoli di luci dei paesi. Più in qua le luci della stazione, i treni con lo sbuffo di fumo. Immediatamente sotto scendeva un terreno coltivato a fiori e due piccolissime casette, sotto il pendio; il passaggio a livello, con il suo campanello, scandiva le mie notti insonni passate a leggere, a scrivere. Anche i i libri sono figli che se ne vanno da soli per il mondo. Sono all’ultima storia, io, io che ero una di domani. Ma che resti, qualche pagina. Voglio salvarla. Ne faccio un pacco ben legato, sigillato e con precise istruzioni, da inviare a, da consegnare a. Da pubblicare. Forse in un libro si può continuare a vivere. Arrivederci. Laudomia

ho scoperto per prima l'esistenza di questi bellissimi gigli.

ho scoperto per prima l’esistenza di questi bellissimi gigli.

I RAGAZZI DEL FOSSATO-AQ

Vacanze aquilane 2°    I RAGAZZI DEL FOSSATO.

 

Anche i cani vengono a cercare un po’ di fresco al Castello, trascinando al guinzaglio i padroni. È una santa alleanza: si somigliano, si sopportano e si comprendono.  Stella, Ugo, Pippo, Asia, Eclisse,  Lilly,  Vichi,  Luky ,  Axel sono diventati tutti amici : scodinzolano e si salutano appena si incontrano. Anche i ragazzi del fossato ( così si definiscono i loro padroni) si incontrano ogni giorno per colpa e grazie agli amici a quattro zampe.

I bipedi  sono un po’ spaesati, dopo il terremoto; il gruppetto dei cani è variopinto per colore, razza ed età, quasi come quello degli umani. Asky e pitbull, boxer  bastardini e barboncini coesistono e bivaccano nel rettangolo accanto alla fontanella. Alcuni sono cuccioli, altri saggi e pieni di acciacchi.

La più giovane dei bipedi ha 12 anni e si chiama Cristina. Viene dalla Bielorussia e non sta ferma un secondo ma ti accoglie con un sorriso ed uno sguardo azzurro come il cielo di questi giorni. La più anziana è spesso silenziosa, ha una bella testa bianca come il suo barboncino. Qualcuno porta due coperte per sedersi sul muretto; un’altra, la torta fatta in casa da distribuire una fetta ciascuno , sotto l’ombra dei pini. Un po’ di dolcezza per tutti quelli che hanno una battaglia da vincere, ogni giorno: dosare con equilibrio, nel caffè, la quota di nostalgia e di speranza.

Perché gli umani raccontano, tra un abbaio ed un guaito, di quando abitavano a due passi da lì, snocciolando un rosario di vie: San Basilio, San Amico, San Pietro, Santa Maria Paganica,  Madonna del Carmine…

Luigina è un archivio vivente: ha nella sua memoria i files di intere generazioni, ma adesso non sa chi abita dall’altra parte della sua parete nel progetto CASE , a S. Antonio. C’è anche la forza di ridere e scherzare. Torna il gusto del racconto e quello dell’ascolto. In mezzo al fumo della  pipa, Daniela  distribuisce con  equanimità crocchette a tutti i cani. Certi giorni arrivano anche i figli  dei figli, rosei nelle carrozzine: guaiscono perché vogliono coccole e crocchette come i cuccioli che si rotolano, a piano  terra. L’amore e la vita proseguono, anche al tempo del terremoto. Hanno strade e percorsi tutti nuovi. Cristina ha una parola ed una carezza per tutti,  bipedi o quadrupedi: mi ha insegnato che nella sua lingua “io mi ricordo” si dice “Pamèz”.

Appena si fa sera,   come per un segnale convenuto, tutti si alzano,  chiudono le borse e  piegano le copertine, si sente un tintinnar di guinzagli e piccoli gruppetti si avviano , in ordine sparso, verso le macchine per tornare a  Marruci, Pizzoli, La Torretta… I ragazzi del fossato non si danno  appuntamento  per il giorno dopo, ma ci saremo lo stesso, domani,  per tentare di ricostruire quella prossimità che non esiste più, quei luoghi comuni che fanno l’incontro. Parleremo delle campane mute dell’Aquila, delle cose di case, dello strano destino che ci ha sparpagliato e poi fatto incontrare qui, bipedi e quadrupedi. E tu Cristina,  forse  un giorno racconterai a qualcuno di noi e dell’Aquila, quando tornerai a Minks  e il tuo racconto comincerà proprio così : “ Pamèz …Amarcord”

Patrizia Tocci ©( tratto da I gigli della memoria, narrazione collettiva a cura di Patrizia Tocci, con Post-fazione di Paolo Rumiz, ed. Solfanelli Tabula fati, Chieti 2012)