Viaggio in autobus, in primavera.

Terra d’Abruzzi: Viaggio in autobus.

Risplendono da lontano, nelle scanalature più chiare dove a Maggio resta ancora una lingua di neve ghiacciata. Offrono un riferimento familiare al viaggiatore . Prima di fronte, poi di lato, poi arrivano alle spalle. Piccoli paesi arroccati sui cocuzzoli : hanno i colori della terra e della neve, si inseriscono bene nel paesaggio grazie alla sabbia, alla pietra, alla malta, al tufo. Campi coltivati o in abbandono, casali vivi o con finestre murate, alberi modellati dal vento. In poche ore, dal mare alla montagna. E le montagne sono altissime, lassù, le due basiliche dell’ Abruzzo , il Gran Sasso e la Maiella che hanno affascinato sempre i viaggiatori e gli scrittori. Chiese di pietra a cui ogni tanto, rivolgere un pensiero. invece la maggior parte degli occhi sono chinati sui display: eppure bisognerebbe approfittare del tempo del viaggio. Cespi di ginestre o greggi di pecore gialle che brucano. Frazioni tagliate a metà della strada principale: invase dalle macchine o dai camion. L’ autista si destreggia con abilità in queste trascurate periferie italiane, a mezza strada tra l’ incuria e il caos, dove si scontrano case coloniche e palazzi ultramoderni, strade comunali e provinciali, bianche o asfaltate, piccole stazioni che potrebbero raccontare anni di storia. Grazie alla posizione alta dell’ autobus, sembra di assistere alla proiezione di un film. Il paesaggio ti entra dentro, ti rasserena. Con tutti i colori di un Maggio fresco, umido. Peccato non si possano sentire i profumi delle ginestre o del maggiociondolo. Ogni tanto qualcuno sale, in queste strane fermate intermedie. Penso al periodo in cui, prima di partire, si faceva testamento. Oggi masse incredibili si spostano continuamente. Ma le vite che sopravvivono in queste fermate intermedie, quelle sono la vera dorsale operosa della nostra storia. Raccontano la nostra origine e la nostra cultura. Le sfioriamo, con un po’ di nostalgia.
Patrizia Tocci

Silone e Fontamara in un murales

In terra d’ Abruzzi
Sarebbe stato contento, Ignazio Silone anzi Secondo Tranquilli nato a Pescina dei Marsi nel 1 maggio del 1900, autore di Fontamara, romanzo tradotto in 27 lingue. Lui che aveva vergato di suo pugno queste frasi in un foglio manoscritto “mi piacerebbe essere sepolto così, ai piedi del vecchio campanile di San Bernardo, a Pescina, con una croce di ferro appoggiata al muro e la vista del Fucino in lontananza.” E che sotto quella torre è stato sepolto. Lui che aveva raccontato le sue radici, ricostruito il mondo dei Cafoni nel suo romanzo in cui persino il titolo sa d’Abruzzo ( esiste anche Monte Amaro) . A Davos, in Svizzera, mentre scriveva con l’occhio della memoria vedeva quelle strade, sentiva quelle voci: pensava e ricordava. Di uno dei tanti ritorni a Pescina lascia testimonianza in “Ai piedi di un mandorlo” : “questa realtà che mi sta di fronte, l’ho portata per tanti anni in me, parte integrante, anzi centrale di me stesso. Conoscevo ogni vicolo, ogni casa, ogni Fontana, ogni porta, ogni finestra, e chi vi si affacciasse e in quali momenti.” Sarebbe felice di vedere, passeggiando per Aielli, in provincia dell’ Aquila, una parete intera di 100 metri quadri completamente ricoperta dalle parole di Fontamara. Siamo nel Borgo Universo, nella Marsica, dove il writer Alleg con un gruppo di artisti, sta riempiendo lo spazio bianco con tutte le parole del libro. Moderne tecnologie come quelle della Street Art si sposano con la lettura tradizionale . Di Fontamara, del piccolo mondo contadino descritto nel suo capolavoro, cominciano a perdersi le tracce : del mondo che per noi ha creato e confinato sulle pagine del suo libro, ora resta anche una ulteriore testimonianza : “una sera che la nostalgia s’era fatta in me più pungente, con mia grande sorpresa, ho trovato sull’ uscio della mia abitazione…” Il seguito potete leggerlo nel libro, definito “ il romanzo della plebe meridionale”. Oppure, ora, anche andando a vedere il murales.

Ricordi di scuola

Una delle più belle e originali dichiarazioni d’ amore che io conosca è stata fatta grazie al telegrafo, in un piccolo paese di montagna. Sembra uno di quei copioni teatrali dal sapore perduto: il maestro della scuola elementare manda un messaggio d’ amore attraverso il telegrafo con richiesta di nozze all’operatrice del locale ufficio delle poste. Fu artefice di questo romantico gesto ( così mi racconta Dante Capaldi, una vita anche la sua trascorsa nella scuola) il mio primo maestro delle elementari: si chiamava Avelio. Da mocciosi ci trasformò in ragazzi e ragazze. Era facile all’ ira, soprattutto con i più indisciplinati; ma anche alla dolcezza. I segnacci rossi che lasciava sui nostri compiti sembravano tanti pioli su cui bisognava salire. Facevamo colazione e ricreazione nel giardino della scuola, una masnada di bambini: qualche scapaccione affettuoso per riportare l’ordine in una pluriclasse mista, dalla prima alla quinta. Anche I miei ricordi sfilano a volte con il nitore ordinato di un abbecedario : la cartella marrone, il sussidiario, il mappamondo rotondo, le cartine alle pareti altissime, la stufa enorme e quel freddo di una piccola scuola di montagna. Ho ritrovato il maestro Avelio molti anni dopo e non fu facile riassumere in poche parole tanti anni, né per lui né per me. Un maestro è qualcuno che ha avuto fiducia in te, ti ha aiutato a crescere: questo fanno, i buoni maestri, gli educatori. Sorvegliano, suscitano, intuiscono la potenzialità nascosta in ogni scolaro. Da insegnante mi capita di incontrare quegli sguardi, ogni mattina, anche quando cercano di nascondersi dietro gli zaini, dietro la frangia dei capelli o cercano di difendersi con un’aria annoiata. Gli amori e gli odi, le domande e le risposte sono le stesse. Si cerca di crescere, insieme . Così sembra, quasi, di non invecchiare mai. Dal primo maestro, agli altri che ho incontrato nel mio percorso. E che vorrei ringraziare così.
©️Patrizia Tocci pubblicato su #ilcentro
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La Cipolla ( Carboncino )

Tra l’ autunno e l’inverno, appena splende un giorno di sole, persino le commesse dei negozi
si affacciano sulla porta. Le spiagge tornano lunghe, vuote degli ombrelloni, e la notte dilaga rapidamente tra le case, presto, sempre troppo presto. Nei piccoli paesi di montagna si accendono i camini e I fumi salgono dritti nell’aria pulita. Ė una terra di nessuno quella tra l’autunno e l’inverno . Gli studenti -la generazione delle felpe- nascondono le orecchie nel cappuccio e le riempiono della loro musica. Portano tutti e tutte pantaloni stretti in fondo con il risvoltino alzato, da cui si intravvedono stinchi e caviglie nude. Sfidano così I rigori di un inverno ancora mite. Ricompaiono sciarpe e guanti, cappelli e baschi. Fumano le sigarette e il fiato. Sono giornate avare di luce e si riscopre il piacere del caldo di una casa, pensieri nascosti dietro vetri apwpannati. Arrivano zaffate di vento gelido, dal nord. Inizia il rituale dei regali; qualcuno ha già preparato l’albero di Natale. Le città scintillano. Siamo alla fine di un altro anno, con un po’ di nostalgia per quello che sta finendo. Bisognerebbe cominciare a guardare nello zaino del 2017, per vedere ciò che ci ha portato e che vorremmo conservare. Mi piacerebbe potervi augurare che il vostro zaino contenga, tra le altre cose, una cipolla. Perché la poesia è anche una cipolla. Levi uno strato, una foglia e sotto ancora un altro strato di carta velina e poi ancora e ancora, fino ad arrivare a quella specie di germe verde, il seme del cuore. Gli anni che si sovrappongono sembrano così sottili che qualche volta facciamo difficoltà a ricordare un nome, un volto, quel momento, quel giorno. Ma quelle ore, quei giorni e quei volti sono tutti dentro di noi. In una cupola trasparente. Se riesci a fare silenzio, tra tuoi pensieri, puoi sentirli piangere, puoi sentirli ridere. Sono la nostra povera ricchezza, il nostro sapore agrodolce. La nostra verità.

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Un albero di cachi ( Carboncino )

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Le città d’inverno sono più tristi, soprattutto quando piove. Le pareti delle case trasudano bagnate e le persone si rifugiano in quell’ombrello casupola spaziale che è la propria macchina. Sfrecciano, sull’ asfalto bagnato a notevoli velocità e innaffiano i malcapitati pedoni che transitano sui marciapiedi laterali, districandosi tra ostacoli di ogni genere, riparati a malapena dai loro piccoli ombrelli. Per fortuna ci sono ombrelli così colorati che mettono di buon umore e che scatenano la voglia di camminare. Anche in una giornata uggiosa. Gli alberi sono spogli, in gran parte. Le finestre tutte chiuse. Gli autobus hanno vetri appannati. Qualche sempreverde sembra volersi far perdonare di essere proprio lì, in mezzo al traffico. Mi piacerebbe incontrare un albero di cachi: sapere così, accettare che siamo dentro l’inverno. Vorrei vedere dietro i suoi rami senza foglie, carichi di piccoli soli, l’intonaco di una casa screpolato, marrone o rosa; una finestra chiusa sulla quale proiettare tutte le fantasie.
Ho bisogno di quell’albero e del suo silenzio: nascosto in uno dei cortili della città; ma potrei accontentarmi di un’immagine intravista da un treno in corsa, una casa di campagna appoggiata ad un passaggio a livello dove finisce anche il sentiero. Potrei trovarne uno lungo un vialone di città, nascosto in mezzo a qualche sempreverde. La bellezza di quei frutti disposti con stupenda armonia lungo quei rami, scabri, essenziali, senza fogliame! Ho bisogno di fare spazio, sospendere il flusso del tempo in un fotogramma che duri soltanto un secondo…Ho bisogno di quell’albero. Per convincermi, per accettare che sia trascorso ancora tanto tempo – un altro anno della mia vita, dice il calendario.
Perché il tempo ci sfugge, ci scappa dalle dita, si frantuma in mille piccoli rivoli di impegni quotidiani e non c’è tempo per fermarsi a respirare.
Un albero, un albero di cachi da incontrare.