Ecco, per tutti voi che mi leggete con tanto affetto e stima, la mia Personale buona Pasqua.
LA valigia di Cartone n.6
“Ci sono delle pratoline secche, in un piccolo erbario, nella valigia di cartone. L’infanzia ha proprio quel colore: calzettoni bianchi, traforati, con l’elastico sempre un po’ cedevole, quelli della domenica mattina che dovevano restare bianchi ed era fatica e penitenza. Le gambe correvano veloci, si arrampicavano sugli alberi bassi, percorrevano i sentieri di terra e d’erba. Nei prati, zuppi di pioggia e d’acqua, nascevano le primule. Cespi di un colore latteo, i primi fiori della primavera, che aveva quel colore di certe mattine, slavato e liquido. Eppure già pieno di luce. Nascevano anche le prime viole, discrete e pensierose; sotto gli sterpi e sotto i rovi, nei luoghi più ombrosi. Le primule invece chiamavano il sole, lo invocavano che diventasse più forte e più alto nel cielo; presto sarebbero state soppiantate dalle margherite bianche, con il cuore di sole. Non so bene cosa pensassi allora. Difficile riacciuffare i fili dell’infanzia, quelle giornate che non avevano orari, quelle lunghe ere in cui si stabilisce un patto tra te e il mondo, in cui c’è una specie di dissipazione, accettata da entrambe le parti, con la motivazione ridicola ( ma questo lo capirai soltanto dopo) del “ sempre”. Le margherite dovevano attraversare la frontiera tra la primavera e l’estate. Per questo erano ben attrezzate, avevano un gambo robusto, radici profonde ed un bianco splendente, un giallo squillante. Avevano il compito di riempire i prati del fieno, competere con le spighe ed i papaveri. Fiori di campo, che si trovavano nell’erba alta o sui pendii sassosi, in mezzo alle sterpaglie, accanto alle rive del fiume. Ma io avevo stabilito un patto con l’azzurro. Amavo soprattutto i fiordalisi: il loro azzurro, tra l’indaco e il violetto, riflette proprio la purezza del cielo di montagna, soprattutto in certe giornate. Questo è il mio augurio per la vostra Pasqua: un cielo sgombro di nubi e sereno. Sotto qualsiasi cielo voi siate.”
Dedicato a tutte le Margherite e i fiordalisi che ho incontrato nella mia vita.La valigia di cartone n 6
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Silone e Fontamara in un murales
In terra d’ Abruzzi
Sarebbe stato contento, Ignazio Silone anzi Secondo Tranquilli nato a Pescina dei Marsi nel 1 maggio del 1900, autore di Fontamara, romanzo tradotto in 27 lingue. Lui che aveva vergato di suo pugno queste frasi in un foglio manoscritto “mi piacerebbe essere sepolto così, ai piedi del vecchio campanile di San Bernardo, a Pescina, con una croce di ferro appoggiata al muro e la vista del Fucino in lontananza.” E che sotto quella torre è stato sepolto. Lui che aveva raccontato le sue radici, ricostruito il mondo dei Cafoni nel suo romanzo in cui persino il titolo sa d’Abruzzo ( esiste anche Monte Amaro) . A Davos, in Svizzera, mentre scriveva con l’occhio della memoria vedeva quelle strade, sentiva quelle voci: pensava e ricordava. Di uno dei tanti ritorni a Pescina lascia testimonianza in “Ai piedi di un mandorlo” : “questa realtà che mi sta di fronte, l’ho portata per tanti anni in me, parte integrante, anzi centrale di me stesso. Conoscevo ogni vicolo, ogni casa, ogni Fontana, ogni porta, ogni finestra, e chi vi si affacciasse e in quali momenti.” Sarebbe felice di vedere, passeggiando per Aielli, in provincia dell’ Aquila, una parete intera di 100 metri quadri completamente ricoperta dalle parole di Fontamara. Siamo nel Borgo Universo, nella Marsica, dove il writer Alleg con un gruppo di artisti, sta riempiendo lo spazio bianco con tutte le parole del libro. Moderne tecnologie come quelle della Street Art si sposano con la lettura tradizionale . Di Fontamara, del piccolo mondo contadino descritto nel suo capolavoro, cominciano a perdersi le tracce : del mondo che per noi ha creato e confinato sulle pagine del suo libro, ora resta anche una ulteriore testimonianza : “una sera che la nostalgia s’era fatta in me più pungente, con mia grande sorpresa, ho trovato sull’ uscio della mia abitazione…” Il seguito potete leggerlo nel libro, definito “ il romanzo della plebe meridionale”. Oppure, ora, anche andando a vedere il murales.
Ricordi di scuola
Una delle più belle e originali dichiarazioni d’ amore che io conosca è stata fatta grazie al telegrafo, in un piccolo paese di montagna. Sembra uno di quei copioni teatrali dal sapore perduto: il maestro della scuola elementare manda un messaggio d’ amore attraverso il telegrafo con richiesta di nozze all’operatrice del locale ufficio delle poste. Fu artefice di questo romantico gesto ( così mi racconta Dante Capaldi, una vita anche la sua trascorsa nella scuola) il mio primo maestro delle elementari: si chiamava Avelio. Da mocciosi ci trasformò in ragazzi e ragazze. Era facile all’ ira, soprattutto con i più indisciplinati; ma anche alla dolcezza. I segnacci rossi che lasciava sui nostri compiti sembravano tanti pioli su cui bisognava salire. Facevamo colazione e ricreazione nel giardino della scuola, una masnada di bambini: qualche scapaccione affettuoso per riportare l’ordine in una pluriclasse mista, dalla prima alla quinta. Anche I miei ricordi sfilano a volte con il nitore ordinato di un abbecedario : la cartella marrone, il sussidiario, il mappamondo rotondo, le cartine alle pareti altissime, la stufa enorme e quel freddo di una piccola scuola di montagna. Ho ritrovato il maestro Avelio molti anni dopo e non fu facile riassumere in poche parole tanti anni, né per lui né per me. Un maestro è qualcuno che ha avuto fiducia in te, ti ha aiutato a crescere: questo fanno, i buoni maestri, gli educatori. Sorvegliano, suscitano, intuiscono la potenzialità nascosta in ogni scolaro. Da insegnante mi capita di incontrare quegli sguardi, ogni mattina, anche quando cercano di nascondersi dietro gli zaini, dietro la frangia dei capelli o cercano di difendersi con un’aria annoiata. Gli amori e gli odi, le domande e le risposte sono le stesse. Si cerca di crescere, insieme . Così sembra, quasi, di non invecchiare mai. Dal primo maestro, agli altri che ho incontrato nel mio percorso. E che vorrei ringraziare così.
©️Patrizia Tocci pubblicato su #ilcentro
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Dante Maffia legge Nero è il cuore del papavero, ultimo romanzo di Patrizia Tocci
PATRIZIA TOCCI, Nero è il cuore del papavero, Chieti, Edizioni Tabula fati, 2017, pagg. 127.
C’è stato un lungo periodo durante il quale l’attenzione dei poeti e dei narratori è stata rivolta quasi esclusivamente alla madre, se si escludono i memorabili esempi di Camillo Sbarbaro, Alfonso Gatto e Salvatore Quasimodo, anche se non mancò un’antologia ricca e articolata curata da Luciano Luisi.
Da un po’ di anni a questa parte l’attenzione si è rivolta al padre e così sono fioriti romanzi e racconti che hanno sopperito alle manchevolezze.
Patrizia Tocci, già prosatrice e poetessa con libri di molto interesse come Un paese ci vuole, del 1990, Pietra serena, del 2000, e La città che voleva volare del 2010, dedica al padre un romanzo, Nero è il cuore del papavero, fresco di stampa.
E’ la ricostruzione di un mondo che ormai esiste soltanto nei libri di antropologia, ma che la scrittrice fa rinascere sull’onda calda della memoria per ridare vigore e sostanza ai ricordi, per ridisegnare la vita e l’anima di un uomo che sembra essere nato dalla terra e vissuto dentro le regole ancestrali di un Abruzzo immobile nei secoli, ma vivo e palpitante, ricco di quei mille rivoli d’amore che costituiscono l’affresco meraviglioso e dolorante della memoria.
Il romanzo non racconta storie complicate o avventurose, non offre intrecci che si sviluppano con concatenazioni a sorpresa, ma scorre lieve e accorato sulle vicende di un quotidiano che, direbbe Lorenzo Sterne, ha più forza e ragioni autentiche delle grandi avventure.
Sì, una vera e propria educazione sentimentale che focalizza, nella dolcezza più assoluta, le abitudini contadine, i dialoghi tra padre e figlia, i sospiri, addirittura, sullo sfondo di paesaggi meravigliosi ora ammantati del bianco della neve e ora colorati di fiori che sottolineano il bisogno della tenerezza.
La Tocci spesso non disdegna di dare pennellate di poesia, di soffermarsi su particolari che in sintesi offrono il carattere dell’uomo semplice che davvero sente crescere il grano e davvero è un albero, come sostiene la figlia.
Insomma, “Quanto vale una rosa d’inverno?”. Vale una intera esistenza e dimostra che i sentimenti sono l’osso e l’anima, come diceva Bartolo Cattafi, dell’umanità e che senza di essi tutto sarebbe una corsa verso l’inessenziale e l’inutile.
La scrittura di Patrizia Tocci oltre che poetica ha il pregio di portarci dolcemente dentro un rapporto che ci fa conoscere l’autenticità delle radici terragne di un luogo che sembra essere una pagina biblica. Infatti la ieraticità dei gesti, la rivisitazione delle tradizioni, i silenzi, le fioriture, le albe, i tramonti non sono soltanto descrizioni, ma momenti di comunione con la natura, essenze di comportamenti che danno senso allo scorrere della vita.
Un libro così sicuramente sarebbe piaciuto a Ignazio Silone e a Francesco Jovine. E’ piaciuto anche a me e a tutta la Giuria.