I Gigli del terremoto aquilano arrivano a Roma

Il prossimo 26 marzo alle ore 16.30 a Roma, nella splendida sala del Carroccio, in Campidoglio, si terrà la presentazione del libro ‘I Gigli della Memoria’ (Solfanelli edizioni) di Patrizia Tocci, scrittrice di origini marsicane che da anni vive e lavora all’Aquila.

Il libro, già presentato all’Aquila, contiene 55 testimonianze delle prime 12 ore (dalle 3.32 alle 15.32) del 6 aprile 2009, data del terremoto che ha distrutto il capoluogo abruzzese; nella seconda parte, i testi della Tocci che riguardano il terremoto. La postfazione è firmata da Paolo Rumiz. L’introduzione alla cerimonia di presentazione sarà tenuta da Nando GiammariniLivia De Pietro, critica letteraria, condurrà l’evento e parlerà del libro. La lettura di alcuni brani è affidata all’attore Benedetto Cesarini, presidente dell’associazione culturale ‘VIII Atto’.Prevista anche la proiezione del video ispirato al libro, realizzato da Franca Visentin. Presenti anche l’abruzzese Dario Nanni, membro della Commissione Cultura di Roma Capitale, Giustino Parisse, caporedattore della redazione aquilana del quotidiano Il Centro,Valeria Bellobono, scrittrice avezzanese e curatrice di un Salotto Letterario romano, docenti di scuola media, superiore ed universitaria, dirigenti scolastici, appassionati di lettura tra cui tanti abruzzesi “che hanno a cuore le sorti ed il futuro e la ricostruzione della città delle 99 Cannelle”.

L’ingresso è gratuito ed il libro, si legge in un comunicato, “oltre alle grande finalità culturali, svolge una grande funzione solidale poiché i diritti d’autore della vendita saranno devoluti al gruppo Volontari Donatori Sangue (Vas) dell’Aquila.

Quando la terra tremò…55 testimonianze e un libro

GIOVEDÌ, 06 DICEMBRE 2012 – IL CENTRO – Pagina 21 – L’Aquila
I testimoni raccontano quando la terra tremò
Oggi nell’auditorium Carispaq presentazione del libro «I gigli della memoria» Nel testo coordinato da Patrizia Tocci 55 aquilani parlano della loro esperienza
L’AQUILA Poco più di 5mila battute per raccontare 720 minuti, forse i più lunghi che il nostro tempo ricordi. Un viaggio nell’inconscio e nella memoria collettiva. È la sfida che la professoressa-scrittrice Patrizia Tocci ha lanciato alla sua città, chiedendo a chiunque se la sentisse di raccontare le 12 ore successive alla terribile scossa del 6 aprile. Da quello che, almeno all’apparenza, poteva sembrare un mero esercizio di stile, è nata una memoria collettiva, fatta di tanti tasselli: 55 per l’esattezza.

Tante sono le testimonianze contenute nel libro “I gigli della memoria” (edizione Tabula Fati, Solfanelli 2012) che, dopo l’anteprima del festival “Volta la Carta”, verrà presentato questo pomeriggio alle 17 all’auditorium Sericchi. La prima parte del volume è divisa in sette sezioni e affronta il ricordo di un’esperienza che rinnega le parole e che ha sconvolto vite e destini. La seconda parte è composta con testi scritti da Patrizia Tocci che si soffermano invece sul tempo trascorso da quel momento fino ad oggi. La postfazione è del giornalista-scrittore Paolo Rumiz. Questo pomeriggio ci sarà un evento teatrale con lettura dei testi a cura della associazione culturale Animammersa, (voci Patrizia Bernardi e Antonella Cocciante). Conduce l’incontro Valeria Valeri di Volta la carta. I diritti d’autore per la vendita del libro, dal costo di 15 euro, verranno devoluti al Gruppo volontari donatori sangue (Vas) dell’Aquila. «È stata un’esperienza impegnativa e stimolante nello stesso tempo» afferma Patrizia Tocci. «Dopo tanti racconti monografici del terremoto, questo libro si propone come collettivo. Forse l’aspetto più interessante è stato per noi la possibilità di condividere quei ricordi drammatici della notte e parlarne tutti insieme, sia scrivendo sia condividendo sui social network le fasi della lavorazione». Un’esperienza di gruppo di fatto. «Una sorta di terapia di gruppo. Il valore del libro sta proprio nel fatto di aver spinto una buona parte della comunità a usare la scrittura per riflettere, elaborare un lutto, una sofferenza o uno choc emotivo. Un modo come un altro di entrare a contatto con l’inconscio. Siamo andati a scavare ricordi, odori o sensazioni che ognuno di noi tende a dimenticare. È un racconto che rinnega le parole» ha concluso Tocci «perché è pure difficile parlarne, ad esempio noi non diciamo tanto per dire frasi come “mi manca la terra sotto i piedi” perché da quella notte conviviamo con la sensazione che la terra, elemento che abbiamo sempre ritenuto stabile, sia in realtà qualcosa che ci sfugge. Conviviamo con questa insicurezza». ©RIPRODUZIONE RISERVATA

GIGLI DELLA MEMORIA

Interviste (im)possibili: i Gigli della memoria

  LE INTERVISTE  ( IM)POSSIBILI

 PATRIZIA TOCCI  intervista  Tocci Patrizia

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Si, è il mio quarto libro.  Ho pensato che fosse un dovere, questa testimonianza. Ho  creato un gruppo su facebook, La banca della memoria: ed ho cominciato a chiedere,  ai miei contatti virtuali e non solo,  se volessero  condividere  questo progetto: raccontare noi, i testimoni, le prime dodici ore della notte tra il 5 e il 6 Aprile del 2009.  Volevo che fosse la nostra voce di abitanti dell’Aquila e dei paesi del cratere a raccontare quest’esperienza che rinnegava le parole. Sono sempre stata convinta che scrittura e terapia vanno insieme… Pian piano le adesioni sono arrivate. Non è stato facile: in alcun i casi le ho quasi “estorte”, dolcemente ma con forza. Per alcune ho atteso tempi lunghissimi. Ma anche questa attesa aveva il suo senso.  I testi, stando insieme, hanno cominciato a coalizzarsi, a riconoscersi…Così sono nate le 7 sezioni del libro: Numeri, La lista, A piedi nudi, Qui è ancora notte, Voci, L’esodo e gli Intrusi.

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Mi sono accorta di aver fatto anch’io un viaggio, in questi anni in cui ho lavorato per cercare di far emergere la voce di  ogni singolo testo, rispettandolo. Un viaggio nelle storie e nelle vite degli altri. Ci sono testimonianze che riguardano Camarda, Calascio, Coppito, Paganica, San Demetrio, San Gregorio… Zone o quartieri dell’Aquila come San Pietro, Costa Masciarelli, Via Sassa…Nomi che dicono ben poco ai non aquilani, e allora  spesso,  per sintesi,  usiamo dire L’Aquila…Sono testimonianze di ragazzi e  di adulti , di tutte le età e di tutte le professioni.  Autori più o meno noti:  alcuni  hanno un rapporto frequente o professionale con la scrittura, altri  hanno scritto per la prima volta per me. Oserei dire:  scritto per noi. Perché forse, la caratteristica de I gigli della memoria, la sua forza è che è stato un libro condiviso, in tutte le sue fasi: per questo ho usato il sottotitolo Narrazione collettiva. Anche per me ci sono state lunghe pause tra le varie fasi di preparazione del libro:  giorni in cui non riuscivo a trovare il distacco sufficiente da quei  testi che comunque mi riguardavano. Ci sono tanti rimandi tra la prima parte del libro e la seconda, nella quale ci sono soltanto i miei testi e che riguarda invece questo tempo post-terremoto: ma scoprirli toccherà ovviamente al lettore ideale.

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Ogni racconto è un giglio ed ogni giglio corrisponde ai gigli dell’Aquila, bellissimi abbellimenti finali delle catene di ferro che tenevano in piedi i muri maestri nelle vecchie case aquilane. La scrittrice Laudomia Bonanni sostiene  che siano   degli ex voto: e che questi gigli siano stati messi sulle case e sui muri rimasti in piedi dopo il terremoto del 1703. Quei gigli  ci sono ancora:  anche se un po’ nascosti e poco visibili, rappresentano ormai per me ( e non solo per me ) il simbolo della città. Mi piacerebbe che spuntassero di nuovo  su ogni casa ricostruita, a testimoniare dopo  la seconda distruzione e questa seconda voglia di rinascita. I gigli legano, in una catena di ferro, quelli che non ci sono più e quelli che verranno.

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Si, la post fazione di Paolo Rumiz è scaturita  proprio da una sua visita all’Aquila. L’ho accompagnato in zona rossa, perché volevo che vedesse i gigli, tra le rovine… ne è nato un episodio del dvd Le dimore del vento, con la regia di Alessandro Scillitani, allegato a La  Repubblica.

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Ho cominciato a scrivere quando ho cominciato a leggere…più o meno.La parola mi ha sempre affascinato.Mi sembra di ricordare che compitassi già all’asilo. Ho avuto  un nonno  che sapeva inventare ogni tipo di favole, aggiungere infinite variazioni. Conosceva a memoria lunghe filastrocche. Me le raccontava con infinita dolcezza e pazienza. Storie del paese, dei briganti, degli esserini che  vengono dalla notte e che  ti fanno i dispetti,  di quelli che ti nascondono gli oggetti o vivono sui rami degli alberi…Il mio destino era già segnato.

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Si, certo sono nata in un piccolo paese della Marsica, Verrecchie, in provincia dell’Aquila. In prima media ho letto Anna karenina. Tutto. Leggevo di tutto. Dalla piccola biblioteca scolastica ai volumi che una biblioteca viaggiante, nascosta  dentro un furgone, portava una volta al mese fino al mio paese… Avevo tanto tempo per leggere. Mi piacevano tutti i fumetti, soprattutto quelli da maschio: Zagor, Black, Diabolik, Tex. Leggevo, leggevo.

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Per anni i miei quaderni hanno stazionato , dalla casa alla cantina, poi in un altra cantina..poi nel forno..per fare il pane o i dolci…ed è giusto così..Ma dai 18 anni in poi sono sempre andata in giro , ovunque, con un quaderno o un’agenda nello zaino, nella borsa… Questi li ho salvati, quasi tutti. Anche adesso,  con un quaderno nella borsa. Così nascono i miei libri. Scrivo,  anzi mi lascio scrivere. Li chiamo i giorni delle nuvole: il pensiero è distratto e la mente sta altrove…Non so bene dove sia questo altrove. Ma ci entro..e ci resto, per un po’. Quando ne esco, ho un bottino di parole: che sia una poesia, un progetto, semplicemente una frase..qualcosa riemerge da quelle nuvole e si solidifica…a volte ne sono appena cosciente..sento che si sta agglutinando..che la parola si fa rotonda, come una caramella tra le labbra: e quel sapore..ogni volta è sempre un sapore diverso…amaro, aspro, dolce, agrodolce, piacevole o spiacevole…sa di mare e di montagna, sa..di tempo.

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Si,  il tempo mi ha sempre affascinato..ho sempre riflettuto sul tempo e la memoria…e non ne sono mai venuta a capo…Forse questo è il senso della vita: il proprio viaggio nel mondo e gli incontri che questo viaggio ci offre con miriadi  di esseri viventi: uomini e donne, animali gatti e cani, uccelli, fiori, alberi e foglie…ed anche libri..Sì,  certo,  libri: abbracci che ho stretto con scrittori lontani millenni e che pure sento come se  (mi)  fossero contemporanei…Ci sono libri che non si chiudono mai…restano con noi, dentro di noi.

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Sì, è stata una esperienza dolorosa. Però paradossalmente ha potenziato i pensieri, la visione, affinato la sensibilità. Ho ritrovato il gusto dell’essenziale : pochi vestiti, pochi libri, poco di tutto…tanto di altro…il mio motto è diventato: omnia mea mecum fero. Porto tutto dentro di me. Gli anni trascorsi, i pensieri, i ricordi, le esperienze..il tempo. Come una chiocciola, come una lumaca… A volte un millimetro o un secondo costano fatica…altre volte il cammino procede più spedito…

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Non so quando potrò tornare nella mia casa e nella mia città. La mia , come quella di tanti tanti, è una vita sospesa. Ma cerco di viverla  con la stessa intensità di sempre. Appassionarmi alla bellezza. Innamorarmi dei luoghi o delle persone, coltivare i fiori e guardarli crescere, scrivere, leggere. Vivere è già un miracolo.  A questo miracolo ogni giorno recito la mia preghiera laica.

 

Patrizia Tocci

Novembre 2012

 

SORELLA NEVE

 Cominciò con un cielo basso, che puntava a terra come la testa di un montone:  lo seguiva  un gregge di nuvole compatto e determinato. Poi qualcuno, lassù, cominciò a setacciare la farina. E venne, la neve.

Giù , da quel cielo basso ma con varie forme: prima piccoli fiocchi lievi,  in una danza   guidata dal  vento; poi diventò più spessa e rotonda e infine si allargò in fiocchi densi e appiccicosi, grandi losanghe bianche. Durante la notte mi sono alzata più volte, per vedere se continuasse quella nevicata che pareva svuotare il cielo. Il giorno dopo sarebbero dovuti venire all’Aquila Paolo Rumiz e Alessandro Scillitani, per la presentazione del loro DVD “ LE DIMORE DEL VENTO”: era tutto pronto per accoglierli. Ma la mattina presto neve e ancora neve. Tutto si era trasformato: le cose avevano duplicato lo spessore e si intravvedeva una grande distesa bianca. Un deserto bianco. Intangibile, immacolato.

Solo allora mi sono arresa: ho smesso di sperare che potessero arrivare da Balsorano ( dove erano ospiti di Bianca, nella Locanda del Ponte). Erano pochissimi km, ma in quel momento erano km di neve. Ho disdetto tutto, avvisato i pochi che potevo raggiungere telefonicamente. E poi , il silenzio. Questa casa in cui dimoro si trova in campagna.  E in campagna,  la neve è diversa. I campi spariscono, le montagne si avvolgono  in sciarpe bianche e si uniscono alla pianura.  I colori si arrendono. Si riposano. Adesso tocca a me, sembrava dire : lasciatemi fare …Ha imbandierato i balconi con festoni, e tutti i fili della luce come per i  nastri dell’infiorata; i tetti avevano messo un cappello, le cose quadrate erano diventate rotonde e dagli alberi pendevano altri alberi. Il ciocco ha bruciato lento nel camino;  la dispensa piena. Ombra e bianco, nero e luce. E silenzio. Un tempo denso, sconosciuto, quasi solido. La neve,  sorella di sorella acqua aveva inghiottito le strade;  cespugli di rovi e  gomitoli di fili spinati  persi, nella pagina bianca. La luce bianca filtrava anche la notte, dal paesaggio: splendeva qualche piccola luce lontana, nella vallata: piccoli paesi con qualche finestra illuminata, segni di resistenza alla tormenta, di solidarietà umana.  

Una lunga pausa di tempo. Il tempo che abbiamo mortificato e si è ripreso la sua rivincita. Sotto la neve, pane: diceva mio padre, quando si vedevano i primi fiocchi scendere.  Mio padre sa che l’inverno è fatto per riposare, insieme ai campi e alle stagioni della vita. Per aspettare il prossimo anno agricolo, che arriverà insieme al grano. Il grano, che è già verde, non teme la neve. Se ne sta anche lui, sotto la coperta bianca…e aspetta.

Sotto la neve, pane. In quei giorni, anche il pane è ridiventato il pane di ieri. E le briciole che avanzavano erano tutte per gli uccelli che sono arrivati. Timidi , diffidenti e poi sfrontati . Ho fatto amicizia con un pettirosso. Ho spiato  la loro paura diventare fiducia. E così anche le briciole sono state importanti.

Pensavo alla mia casa, quella dove non posso più stare. Mi chiedevo se il tetto avesse saputo reggere il peso della neve, se il lucernario fosse ancora integro, se la piccola stanza tutta per me ( che avevamo appena costruito) avesse ancora il suo tetto di vetro…

Ricordavo un’altra nevicata sui tetti dell’Aquila, mia figlia bambina e i pupazzi di neve ai cantoni dei vicoli, gli slittini e i cappelli coi pon pon, le urla di felicità e le mani ghiacciate … Come devono sentirsi sole quelle piazze, quelle scalinate. Come dev’essere stato pesante il silenzio,  all’incrocio di quei vicoli.

Poi,  la magìa si è sciolta. Non c’è niente di più sporco della neve sporca. La neve,  ammucchiata ai lati della strada,  s’è fatta grigia e nera. Eppure niente di sorella neve andrà perduto. Riempirà le falde e farà crescere il grano. Rimarrà nei nostri ricordi e tra qualche anno, sarà bello dirsi: “ ma ti ricordi , la nevicata del 2012?”

 

Patrizia Tocci.

La montagna Incantata di Paolo Rumiz: l’Aquila e dintorni

“Come naufraghi sull’Appennino isolato aspettando uno spazzaneve”
Nei paesi tra Abruzzo e Lazio dove il tempo si è fermato. La montagna è ridiventata incantata e l’emergenza si mostra come un semplice ritorno alla stagionalità perduta. Vent’anni fa tutti uscivano con la pala in mano. Oggi aspettano, ma non arriva nulla: gli enti locali non hanno più mezzi
di PAOLO RUMIZ
 
BALSORANO – All’alba il silenzio è assoluto. In tutta la valle non si muove più nulla, nemmeno il treno. Qui niente luce, niente riscaldamento.
Alle otto nevica da dodici ore, il tempo si è fermato in Appennino, qui tra Abruzzo e Lazio. In dodici ore è passato uno spartineve, una sola volta sotto gli alberi stracarichi, e poi niente. La tormenta non molla, anche qui, a quota 350.
Dalla finestra della locanda dove mi trovo posso controllare perfettamente chi passa in Val Roveto, quella che da Cassino sale ad Avezzano sotto i monti del Parco nazionale d’Abruzzo. È un varco stretto come le Termopili, ma non vedo passare nessuno. La strada provinciale, la superstrada per l’Aquila, il ponte sul Liri, la stradina locale per Sora, la ferrovia, il fiume: non transita nulla, tranne le oche che litigano in basso, i merli e i passeri in cerca di cibo. I volatili sono l’unica cosa viva. Nel bosco si sono spenti i colori tranne la livrea di un pettirosso. La montagna è ridiventata montagna incantata, e quella che chiamano emergenza qui si mostra come semplice ritorno a una normalità stagionale perduta. A febbraio, appena dopo i giorni che i nostri vecchi chiamano “della merla”, l’Appennino ripristina il suo ruolo millenario di muraglia dei lunghi inverni che divide due mari e due Italie.
Come quando gli inverni erano inverni, nessuno più si sposta, il mondo si rintana, le greggi si rinserrano, i lupi scendono a valle, i monasteri tornano al silenzio dell’Alto Medioevo. Intanto, le mie vedette appenniniche disseminate nel centrosud mandano via telefono bollettini d’altri tempi. Dalle gole del Sagittario presso Sulmona: “Mezzo metro. Stiamo spalando. Le pecore sono al chiuso, ma ora tiriamo dentro anche i somari, perché con gli orsi non si sa mai”. Da Avellino: “Neve in città. Fino a un metro sul Montevergine. C’è un silenzio magnifico, perfetto per scrivere”. Anche Foggia è sotto. “Il Gargano è bloccato – scrivono – neve sugli uliveti e sui pascoli della transumanza. Neve anche sul santuario di Padre Pio. Non si muove più niente”. Da Piandimarte presso il Trasimeno: “Siamo totalmente isolati da tre giorni. Il Comune non risponde. Mia madre sta morendo e non abbiamo più medicine”.
Ore 10, quaranta centimetri di neve compatta, e ancora nessun trattore a spazzarla via. Facile vedere l’Appennino d’estate. L’Appennino lo capisci d’inverno. Il suo isolamento, la sua durezza pastorale, la sua distanza dal potere. Qui siamo vicinissimi a Roma ma pare di essere a mille miglia. Quando,in un inverno come questo, qui tuonò il terremoto del 1915, l’esercito ci mise quasi una settimana ad arrivare. Oggi non è cambiato nulla. In compenso sono cambiati gli italiani. Hanno perso le mani. Pochissimi spalano. La gente è rintanata e aspetta.
Vent’anni fa con le grandi nevicate, tutto il Paese usciva con la pala in mano. Oggi che la Protezione civile ha esautorato i volontari e anche il buonsenso, tutti aspettano che siano gli altri a tirarli fuori dai guai. Ma non arriva nulla, perché gli enti locali in bolletta non hanno più mezzi.
Immobilità assoluta, l’inverno ha fermato la moviola della vita. Ed è tutto fermo proprio nella terra più ballerina d’Italia, la linea dei terremoti che arriva fin qui dalla Calabria attraverso l’Irpinia e la Maiella.
Nevica su l’Aquila, bianche meringhe crescono sui tetti della città del silenzio, arrotondano i camini, abbelliscono persino le impalcature della ricostruzione che non c’è. Nevica su Onna, epicentro anche mediatico della devastazione dove oggi non va più nessuno, turbina lento sulle rovine dei paesi perduti e su un popolo di profughi in casa loro. Fermo, tutto fermo, con auto abbandonate di traverso sotto una coperta bianca di settanta centimetri.
Giovedì, giorno della vigilia ho attraversato tutto il Sud per arrivare qui dalla Puglia, sulla direttrice della via Appia. Sotto un cielo color anice i bastioni appenninici erano coperti di un bianco sporco come di greggi, e sembravano gonfiarsi nell’aria, assumere più rilievo. I contorti Picentini a picco su Salerno, le cupe Mainarde ai limiti del Molise, il Monte Morrone dove andò a rifugiarsi il papa Celestino V, la quasi inesplorata Serralunga sotto il Parco Nazionale d’Abruzzo, il muraglione del Matese alto sul paese delle bufale, i monti della Ciociaria con le civette e le capre lunari cantate da Tommaso Landolfi. La neve evidenziava le altimetrie e rendeva più chiara la struttura della spina dorsale d’Italia.
Si svelava un mondo costruito nell’inverno e per l’inverno, una barriera più severa e implacabile di quella alpina. Da un posto chiamato “Varo dei Lupi” ho visto la terra fumare e sfiatare vapore in attesa del freddo. E poi le migliaia di croci del cimitero militare di Cassino immobili sotto il cubo tremendo del monastero e l’ombra di un monte rotondo detto Cairo. Oltre quelle croci iniziava la terra delle madri vestite di nero, regine d’inverno, padrone dei focolari, dispensatrici di cibo, malocchio e ricette salvifiche.
A mezzogiorno siamo a oltre mezzo metro, gli alberi sul fiume sono curvi e tesi come fionde, ogni tanto dal tetto scivolano con un tonfo fette pesanti e immacolate di panna. Ci diamo dentro a spalare, ma l’auto è sepolta, chissà quanto resteremo qui. Il grande silenzio continua, niente auto, niente camion, niente treno. “Pronto, prefettura? Quando ci mandate uno spartineve?”. Risposta: “Siamo in riunione”. Fuori, la manna scende dal cielo come un grande sedativo su questo nostro Paese in crisi di nervi, e intanto il telefoninofrigge di messaggi su appuntamenti che saltano e provvidenziali cancellazioni causa maltempo. Sentiamo discendere su di noi una assoluzione plenaria da meteo. “Vides ut alta stet nive candidum”, guarda come il monte se ne sta candido di neve alta. Torna alla mente dai tempi di scuola l’ode che il latino Orazio dedicò al Monte Soratte e alle meraviglie dell’inverno. Neve di una volta, soffice come panna montata, neve anni Venti, da battaglia a torte in faccia. La superstrada è così perfettamente deserta che se avessi gli sci da fondo potrei percorrerla andando pian piano fino ad Avezzano. In realtà, siamo felici di essere isolati, buttiamo altri ceppi nel camino e spaliamo neve, bianca come il nome della padrona della locanda, che vedo in bilico su una balaustra a spazzare il tetto della veranda. Intanto, giù al fiume le papere se la spassano nella corrente.
Alle 14 Bianca mette in cantiere cannelloni ai carciofi e racconta di quando rimase isolata per una settimana nel 1956. “Passava – dice – solo qualche asino o mulo di paese”. Ci si raccontano storie, come nel Decamerone; l’isolamento aumenta la comunicazione, la mancanza di luce fa il resto. Ora nevica bagnato, i rami dei salici non reggono al carico e ogni tanto crollano con un crac tremendo che spaventa le anatre sul fiume. Vento umido, il bosco è in sofferenza, si lamenta. Alle 14.30 arriva il primo spazzaneve sulla statale, seguito dal camion spargisale. Viva l’Italia. Alle 16 sulla superstrada transita qualche mezzo a passo d’uomo, solo in discesa. I naufraghi di una corriera rossa rimasta bloccata formano una piccola processione oltre il fiume. Aghi gelati picchettano i vetri. Ci procuriamo candele per la sera. In locanda funziona solo un caminetto; il resto è freddo becco e una lunga notte in arrivo.
Paolo Rumiz
 da Repubblica, oggi 4 febbraio 2012
 
( riporto per intero questo articolo: Paolo Rumiz e Alessandro Scillitani avrebbero dovuto essere all’Aquila, il 3 febbraio per una presentazione molto attesa, del loro dvd “Le dimore del vento”. purtroppo le condizioni metereologiche hanno impedito questo incontro. Paolo Rumiz e Alessandro Scilliatni avevano appena presntato il loro dvd a Sora, e sono rimasti bloccati ne La loacanda del Ponte, Presso Balsorano, ( Valle Roveto) . voglio comunque ringraziarli tutti ( compreso Bianca Mollicone) in questo modo.