DONNE IN NERO
Due erano le direttrici lungo le quali si snodavano le avventure della mia infanzia: due luoghi magici, due colonne d’Ercole: la casa di Ilde, alla sommità del paese e il ponte sul fiume.Non bisognava oltrepassare la casa di Ilde: lì finiva il territorio noto e conosciuto nel quale potersi avventurare senza il controllo dei grandi.
Ilde era la bidella della scuola elementare: già avanti nell’età, sembrava possedesse poteri speciali per poter abitare da sola in quella strana casa in cima al paese. Era quello un periodo nel quale realtà e fantasia non avevano ancora confini precisi. Corse pazze, in salita fino a quella casa, senza fermarsi mai, lungo la scalinata: porte aperte, vasi fioriti e cataste di legna, galline e pulcini che razzolavano, qualche animale da soma legato ad una pietra sporgente dal muro. Arrivare fin lassù per gettare un sassolino contro la finestra, percuotere il battente della porta e fuggire via, sempre di corsa, scendendo le scale a rompicollo per approdare finalmente nella piazza. Oltrepassare quel punto di confine significava emanciparsi dall’infanzia, lasciarsi i divieti alle spalle, contestare la mappa dei luoghi inaccessibili. A distanza di anni, sembra più piccolo, più breve il percorso; ci sono le stesse scale e le stesse porte, chiuse però; mancano completamente quelle figure ieratiche che hanno accompagnato la mia infanzia: donne piccole, dai capelli bianchi, con i grembiuli neri sulle vesti scure; le mani sempre impegnate a cucire, sgranare, mondare: raramente abbandonate nel grembo, come due animali che riposano dopo una grande fatica. Donne, sedute appena fuori l’uscio, che ti interpellavano per sapere a quale famiglia appartenevi: solo allora, ti lasciavano andare. Ho sempre pensato che quelle donne avessero a che fare con la vita e con la morte e conoscessero anche il mio destino, gli intrecci ed i fili delle diverse generazioni: e così come intrecciavano i fili dei ricami avrebbero potuto fare e disfare, continuamente, la tela della vita.