IN UN QUADERNO ROSSO
Già, la carta. Il piacere e l’odore della carta.Ogni fine mese passava un furgone ambulante, una biblioteca viaggiante; mi veniva consegnato un cartoncino rosa da riempire, scolaretta dell’elementari, con tanti puntini sospesi nei quali, in perfetto burocratese , dovevo lasciare le mie impronte, spiegare la mia voglia e il mio gusto di leggere. Tanti libri. Mille gru, il sole di Hiroshima, le prime finestre sul mondo. Ricordi sconnessi. All’ospedale, un lunghissimo mese senza vedere la mamma e la sorella, appena nata. La nonna mi assisteva, mi faceva compagnia. Lei, che non sapeva leggere e scrivere, a malapena tracciava tutta sbilenca la sua firma sul foglio di carta e impugnava maldestramente la penna …
Scolaretta di quarta, scrivevo su un pezzetto di carta il giornalino che doveva comperare per me, uscendo, all’edicola. Leggevo di tutto, pur di leggere. Il primo libro serio è stato Anna Karenina. Regalatomi da un amica di famiglia, una professoressa di lettere. Era una vecchia edizione, spaginata ed in parte scollata; la rilegai alla meglio e cominciai. Quello fu davvero il primo di una lunga serie di viaggi: in mezzo a tutti quei nomi dalla grafia impronunciabile, quei patronimici, la scena finale del treno, il sorriso di Vronskj, l’infelicità del marito e quella malinconia profonda di Anna, nella quale subito mi sono riconosciuta. Quando in Tv potetti vedere lo sceneggiato del romanzo, fu una delle prime grandi delusioni che si sono puntualmente verificate, sempre; la mia immaginazione aveva costruito tutt’altro lungo quelle numerose pagine; aveva dato un altro volto al marito, un’altra voce al conte, un altro sorriso alle labbra di Anna; certe atmosfere piene di neve erano state costruite giorno per giorno, in quel libro che non finiva mai e al quale tornavo – rapidamente fatti i compiti – a volte rifiutavo persino di uscire con le amiche, pur di progredire nella storia.
L’Incompreso – fiumi di lacrime sul libro, così come accadde per la lettura di Cuore, e poi Zanna Bianca e Jack London, tutti libri sempre avuti in prestito, mai miei. Imparavo a lavorare a maglia, ero brava all’uncinetto, sapevo fare il sugo e rassettare ma già sentivo, in una maniera oscura ed embrionale, di essere sempre altrove.Da sempre quella fame atavica di leggere. Tutto qui. Lunghe “ere”, pomeriggi e sere silenziose in cui perdevo il senso del tempo; mia madre, vedendo ancora la luce accesa, mi implorava di spegnere, sottovoce, per non svegliare papà che dormiva. Qualche volta, disperata, si alzava e veniva a spegnere la luce. Allora, quel mondo che il libro aveva evocato si richiudeva, zitto buono e obbediente, dentro quelle pagine come uno scrigno, un tesoro prezioso di cui però solo io avevo la chiave; sarebbe bastato riaprirlo, il giorno dopo. Poi lessi un intero volume delle pagine Gialle di Roma; e mentre scorrevo i nomi, le vie, i numeri e le professioni, immaginavo il reticolo di quella grande immensa città. Qualche anno più tardi sarei partita, insieme ad un grande senso di orizzonte e di avventura; Roma sarebbe stata un mondo di pensieri e di occasioni, una babele di studio e di lingue, un grande mondo al centro del mondo. Che impressione indelebile, quella dell’Urbs studiata sui banchi del Liceo – ma allora ero già grande, avevo più chiara la mia vocazione; la scrittura e la lettura avevano messo radici salde nella mia anima. Ad esse, lo sapevo, avrei sacrificato volentieri il resto, tentando sempre una continua osmosi, una mediazione con la realtà.
Tutto Pavese, letto nella biblioteca del Liceo; un amore forsennato che mi costrinse a copiare tutte le sue poesie in un quaderno con una speciale copertina rossa, prima di restituire quel libro e quei versi che avevano troppo da dirmi. Le traduzioni contestate di Omero, dei lirici greci; volevo altre parole, altre sfumature e non ero mai soddisfatta. Chissà dove sono finite, tutte queste testimonianze. Tutte bruciate, servite per accendere il forno o il camino. Meglio così. Sempre cartaccia erano. Già, la carta, il piacere e l’odore della carta. Ancora alle elementari, un altro quaderno con le pagine listate di rosso, un bel quaderno nuovo. Feci qualche pasticcio con la penna, sbagliando più compiti successivamente; per non cancellare con la gomma – venivano furori dei buchi orribili – strappai qualche pagina. Ma se ne strappavi una sola, dovevi strappare anche l’altra corrispondente … Adesso capisco quanto fosse importante un quaderno per il nostro magro bilancio familiare. Il quaderno fece rapidamente una cura dimagrante, dimezzò il suo volume. Ne seguì un lungo, doloroso rimprovero. Le “cose di scuola” bisognava tenerle da conto, compresa la cartella; quando si spuntava la matita, mio nonno rifaceva la punta con il coltello a serramanico. Era una operazione lenta e meticolosa; la teneva ferma su una cinta robusta di stoffa, che portava alla vita, alla quale erano appesi altri piccoli attrezzi da lavoro; rifaceva la punta con lentezza meticolosa, come i pastori che intagliavano i bastoni nelle lunghe solitudini invernali. Ricordo l’odore delle prime scatole di pastelli: una bellezza di arcobaleno, avvolta in una scatola sottile, ordinata come i tasti di un pianoforte, pronta a sprigionare e seguire i miei sogni; l’odore di legno, di gesso che ho risentito in qualche aula, nella mia vita da adulta e mi ha fermato il cuore; mi ha spinto a guardare in altro modo le teste e le zazzere chine sui banchi.
Ora il presente ha ripreso il sopravvento. La spiaggia è quasi silenziosa, il sole basso. Il mio uomo, accanto, parla al telefono, appeso alle sue trame lavorative. Io, appesa alla mia scrittura, allora come ora. Da una parte del cervello – come un globo luminoso- il pensiero di mia figlia lontana nei suoi amori ma vicina al punto che ogni tanto mi offre uno specchio in cui guardarmi. Una signora di mezza età, seduta su un asciugamano rosso, oggi ha riempito le pagine bianche di un quaderno che porta sempre con sé. Sulla spiaggia non c’è più quella bambina con il grembiule nero e il fiocco blu, né la fanciulla in fiore degli anni successivi; eppure sono sempre mie, contemporanee.
Patrizia Tocci