IO SONO IL FIUME (di Patrizia Tocci)

 

IO SONO IL FIUME

Io sono il fiume. Per secoli un ponte di pietra, piccolo, arcuato, ben
fatto mi attraversava , mettendo in comunicazione gli abitanti di una riva
con quelli dell’altra. Ma non tutti potevano sostare sul ponte o passare
dall’altra parte. A questo c’erano uomini e donne deputati: gli
ambasciatori. Portavano merci, lettere, biglietti, notizie. Ma nessuno,
oltre i dodici ambasciatori, poteva passare il ponte; bisognava vivere di
qua o di là: sulla riva destra, sulla riva sinistra. Sul ponte c’erano
catene giganti: ricordavano a tutti che cosa avrebbe significato infrangere
le regole e i divieti che queste due comunità rivali si erano date per
interrompere una guerra durata secoli. Io sono il fiume e per secoli ho
visto scorrere il sangue. Poi c’è stato un lungo periodo di pace armata.
Nel frattempo sono nate storie d’amore clandestine, ci sono stati suicidi
nelle mie acque, ho dissetato interi filari di pioppi e di viti,
generazioni di pesci e di uccelli, di lumache e di ranocchi, di rospi, larve
e girini. Le donne, nei giorni buoni, venivano a sciacquare i panni e mi
tenevano al corrente di tutti i cambiamenti; i cavalli si abbeveravano con
lunghi sorsi e lunghi silenzi.
Io sono il fiume, e per tanti anni ho ascoltato le loro chiacchiere e i loro
sospiri, scoperto invidie e cattiverie, custodito segreti e miserie; ho
prestato orecchio alle loro cantilene, ai bisbigli e ai gridi soffocati,
ai primi pianti dei bambini, alle ultime parole dei morenti. Sapevo i
loro rumori e i loro profumi; da quale casa fuoriuscisse per primo il fumo
del camino, l’odore di una casa vuota, riconoscevo l’abbaiare dei cani, i
comandi dei padroni.
Poi, anno dopo anno, mi hanno confinato in uno stretto letto di cemento;
hanno tolto gli alberi, distrutto il ponte di pietra per sostituirlo con un
ponte lunghissimo, di ferro. Tutto si è allontanato e diventato
indistinto, evanescente.
Io sono il fiume e un giorno mi è scoppiata una nostalgia tremenda …
Ritrovare quegli odori e quei profumi, arrivare nel cuore della città,
dentro, dentro le loro stanze, scoprire il perché di questo assurdo
silenzio e di questa lontananza. Più di tutto avevo nostalgia degli occhi
di una donna, quella che ogni mattina s’affacciava in vestaglia alla
finestra, si appoggiava sul parapetto di legno, fumava la sua prima
sigaretta e piangeva. Poi si asciugava le lacrime e sul suo volto si
disegnava un’ombra di sorriso. E i suoi occhi, che avevano lo stesso colore
della mia acqua , si perdevano lontano. Non ho mai saputo il suo vero nome.
Il suo uomo la chiamava Occhi verdi, diceva che dopo l’amore i suoi occhi
diventavano verdi. Questo era il loro segreto. Io sono il fiume e per un
fiume non ci sono segreti. Anche quando piangeva aveva gli occhi verdi. Ma questo lui non poteva saperlo, né poteva capire il suo pianto. Io sono il
fiume e conosco il cuore delle donne e degli uomini. So che la vita è come
l’acqua e che ha bisogno dell’acqua per sopravvivere. E l’acqua trascina con sé tutto quello che trova. Ma qualche traccia resta sempre, da qualche
parte: un ramo, un fiore. Una volta Occhiverdi mi è arrivata vicina,
portando un lumino acceso; l’ha lasciato nelle mie mani, , ha bisbigliato un nome e mi ha detto “ portalo laggiù.” Io sono il fiume e non potevo certo
deluderla … Ho chiesto aiuto ad un altro fiume, i fiumi del mondo sono tutti fratelli. Sono arrivate persino le nuvole, a darci una mano … Poi per anni, più nulla … Solo macchine che correvano di qua e di là, tutti chiusi dentro quelle scatole, senza parole, senza sorrisi.
Io sono il fiume e mi gonfio di emozioni. Non ci volevo stare più in quel
letto di cemento. Non ne potevo più di scivolare a valle senza vedere nulla,
senza fermarmi nelle anse dove nascevano i girini, sostare nel tronco
pieno di muschio dove il picchio aveva fatto il suo nido. Volevo ritrovare
quella sabbia fine depositata nell’erba , allevare i gamberi grigi e
sfiorare i rami dei salici. La rabbia è cresciuta insieme all’indignazione,
giorno per giorno. Li avevo dissetati per secoli, sfamati, cullati e adesso
mi condannavano ad una solitudine di cemento …
Sì certo, sono il fiume e conosco la potenza dei miei nervi, l’intrico delle
vene, la velocità della rabbia. Così sono tornato fino alla casa di
Occhiverdi. Nemmeno la casa c’era più, nemmeno il parapetto di legno,
nemmeno il balcone. C’era solo un alveare di cemento. L’ho cercata
dappertutto, mi sono infilato nei vicoli, ho risalito i sottopassaggi e le
strade, ho bussato alle finestre… Me ne sono dovuto tornare al mare. Ho
mischiato la mia acqua dolce con la sua … Gli ho raccontato questa storia.
Il mare ha compreso. E mi ha lasciato andare giù, dove l’acqua è verde. Dove le alghe sono le dita del buio, dove la luce del sole entra appena appena.
Qui non ci sono ponti. Qui non ci sono voci.

Non tornerò lassù.

Patrizia Tocci© ( RIPRODUZIONE RISERVATA)

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