PANNI STESI (LA’-QUI-LA’)

                            Panni stesi

 

Panni stesi

 

Del resto,  quella domenica sera siamo usciti di casa alla prima scossa forte, quella delle undici e trenta, con la stolida certezza di tornarci, come era accaduto già altre volte. Ho preso con me il telefonino, la cartella di scuola  con il notebook portatile,  i materiali per gli scrutini del giorno dopo, gli occhiali, il portafoglio con i documenti. L’abitudine rende gli uomini ottusi ma li salva dal dolore.  Per giorni interi non avrei potuto scrivere una riga. Solo silenzio, dentro, vibrazioni di silenzio, faglie di identità in continuo doloroso mutamento. Un senso di precarietà nelle gambe che non sapevano più  rilassarsi e camminare. La notte, insonnie durevoli.  L’anima  contratta, l’essere  abbracciato a se stesso, spaventato. Saltati tutti i rapporti umani. Il telefonino continuamente in carica, l’unico contatto. Telefonavo al mio  numero fisso. Sentivo la voce della segreteria telefonica e pensavo : allora la mia casa esiste ancora … il filo del telefono deve  essere  appeso a qualche muro. Casa. Che parola dolorosa. Che parola orfana.  Dormiamo, facciamo finta di dormire   nel nostro camper.  Si scappa, prima a Roma;  una settimana dopo a Pescara. Con la vita tutta in una borsa, abiti di fortuna, cambi che conserviamo sempre nel camper.: se non l’avessimo avuto   saremmo rimasti a dormire in casa, nel centro storico e le macerie ci avrebbero sommerso, alle tre e trentadue di quella notte. Venti secondi  ci hanno cambiato la vita. A Pescara si tenta di ricostruire una normalità. Un piccolo bilocale, accogliente, caldo, amico. Sul tavolo troviamo persino la colomba e l’uovo di pasqua. Non si piange. Non piangiamo quasi mai. Ognuno lo fa in segreto, in silenzio, per dare  forza  all’altro. Scatta qualcosa di primordiale. Siamo precari ma non vogliamo avere l’aria di esserlo. Vado ad insegnare in una scuola superiore. Riesco a parlare di Pirandello e di Pascoli ma gli studenti vogliono che io racconti del terremoto. Non li accontento, non ne ho voglia, non sono sicura di saper oggettivare, di reggere quel racconto. Rimangono delusi. Succederà tante altre volte, con altre persone. Non si condivide,  questa esperienza. Però tra noi – i testimoni – ci si capisce, invece.  Basta guardarsi negli occhi. Sono occhi spaventati. Abbiamo inventato un vocabolario nuovo, per dire l’indicibile. A volte riusciamo persino a scherzarci su: e quando ci incontriamo , adesso, a distanza di un anno ci chiediamo “ come sta casa tua?” “ ah, la mia per fortuna è A” “ la mia invece è B, bene, in quattro cinque mesi, un anno forse riuscirò a rientrare.” “ per le case C invece si prevedono tempi più lunghi, Ci sono danni strutturali …”  “Se ti hanno dato E … Eh … puoi dimenticarti di tornare”. Questi  discorsi facciamo quando ci incontriamo, in  rare occasioni  in una città che non ha più luoghi, e siamo sparsi sparpagliati deportati, un po’ sulla costa negli alberghi e nelle strutture ricettive, un po’ nei MAP ( moduli abitativi provvisori) un po’ negli insediamenti del Progetto CASE, un po’ dai parenti o dagli amici, un po’ in affitto o in autonoma sistemazione, un po’ non sappiamo più nemmeno dove. Saltate tutte le regole sociali, le prossimità di quartiere o di strada, le conoscenze stratificate di anni. Tutto sconvolto, un miscuglio terribile. Persone scomparse dall’orizzonte visivo. Ma le donne sono dure ad impazzire,  reagiscono con più forza,  con più coraggio degli uomini, nonostante siano saltate proprio le nostre coordinate: lo spazio e il tempo scandito dai ritmi di una casa,  gli spazi organizzati, la cura di se e degli altri. A Pescara ho scoperto le lavasciuga automatiche. Due volte la settimana , come a casa,  il bucato; nella sala di attesa passavo intere mezzore in compagnia di  donne straniere, emigranti, migranti, clandestine o regolari;  mentre i panni si centrifugavano ed uscivano già asciutti,  pensavo che sarebbe stato bello poter fare così anche per il proprio dolore, asciugarlo, piegarlo con cura e riporlo in una borsa di tela, farlo scomparire alla vista. Metterlo a tacere per un attimo. Anche loro portavano in una borsa tutta la vita. Somigliavano a quelle contadine che nel mercato della mia città vendevano la cicoria di campo, qualche manciata di fagioli, tre o quattro cipolle e  gli asparagi selvatici.  Facce rugose, con i capelli bianchi, quasi accovacciate per terra o sedute su una piccola seggiola di fortuna. Precarie eppure così forti, con le  borse di tela da cui uscivano i sedani o i carciofi.  Chissà dove saranno quelle donne. Forse sperdute in qualche albergo della costa, uno di quegli hotel a tre stelle, con una stanza per orizzonte e un mare  ostile ed infuriato dietro il vetro. Prede della nostalgia, prede del dolore per una casa che non hanno più – la casa degli affetti, il luogo della vita e della memoria. Donne, o uomini che muoiono di solitudine. In luoghi che il mare d’inverno rende ancora più tristi e solitari. Che non sanno come passare il tempo. Già,  il tempo.  Prima del terremoto, dopo il terremoto. Prima della guerra, dopo la guerra. I ricordi si sommano. Si confondono. Altra prova terribile per una donna: il recupero dei beni. Che cosa si porta via da una casa? Che cos’è che a questo punto diventa essenziale? Le donne sanno che è la vita, l’essenziale. Sono state forti e coraggiose.  Le mie studentesse  hanno preparato l’esame di stato, a giugno, studiando su una scatola di cartone, in una tenda,  con otto persone. Donne che hanno reagito cucinando per nuclei familiari raddoppiati, scambiandosi e prestandosi vestiti. Con la vita in una borsa, i cambi  lavati stesi  ogni giorno per essere comunque in ordine e non perdere mai la dignità di persone. Sempre a testa alta. Ne ho viste tante di queste donne, più forti, più pazienti, più capaci di non aver paura.  Le ho viste nelle manifestazioni, in mezzo agli uomini, a volte più arrabbiate degli uomini.  Dure ad impazzire, negli abbracci e nei sorrisi, nel pianto di  qualche lacrima asciugata in fretta. Già, il tempo.  Sono stati giorni a scomparto, cassetti chiusi e mandate su mandate. Ho vissuto un mondo sparpagliato. Per mesi i miei vestiti sono stati dentro i sacchi neri dell’immondizia- borse volanti trasportate qua e la dal camper alle case temporanee in cui abbiamo vissuto. Alcuni di questi sacchi erano stati riempiti direttamente dai  Vigili del fuoco quelle volte  in cui  sono tornata a casa per prendere un po’ di biancheria, qualche documento necessario, una fotografia particolarmente cara. Che cos’è che diventa essenziale ? Ho benedetto le nuove tecnologie, le penne usb per archiviare  ciò che venivo scrivendo e pensando, la chiavetta di internet per essere in contatto con il mondo, le spese pazze per il telefonino cellulare, gli indirizzi email per contattare gli amici. Non abbiamo più ricevuto la posta per mesi.   Ho dovuto assistere al trasloco di vent’anni di vita. Dove vivo ora,  non c’è posto per venti anni di vita. Il dolore della memoria. Quando è morta Alda Merini volevo rileggere le sue poesie. ma i suoi  libri stanno nell’altra casa, in un’altra vita.  Avevo già deciso  nella piccola casa di Pescara  che avrei  raccontato questa storia. Lavoravo appesa al computer portatile come fosse una zattera di salvataggio. Sembrava strano, una terremotata col portatile.  Ma ho il dovere di raccontare la forza d’animo che ci vorrà per affrontare questo tempo sospeso, per poter ripensare il futuro senza troppa paura, senza troppo dolore. Ho visto donne  coltivare  gerani  persino nelle tendopoli. Così,  anch’io in questo inverno nevoso,  ho piantato dei bulbi nel giardino di questa casa provvisoria.  Tra poco sarà di nuovo Pasqua. Soltanto un anno – dice il calendario.  E’ stato come camminare su una superficie di ghiaccio, con  il passo malsicuro; che fatica stiamo facendo tutti per camminare su quella superficie ghiacciata, liscia, pronta ad incrinarsi per un nonnulla. Mi sono sentita molto sola su quella superficie ghiacciata. Mi sembrava che tutti fossimo impegnati ad attraversare quel lago – ad alcuni sarà sembrato un mare. Qualcuno scivola. Qualcuno comincia ad approdare,  su una riva o sull’altra … senza mai dimenticare lo sforzo che c’è voluto per arrivare sulla terra ferma. Qualche volta l’acqua o la terra  trema ancora. Ci svegliamo un po’ prima un po’ dopo le tre e trentadue, affannandoci  a  coprire un vuoto,  ostinandoci a negare un dolore.. Metteremo forse un vestito a fiori, faremo pace con le scarpe dai tacchi alti che non indosso più da quando è cominciata questa guerra.  Voglio coltivare un bulbo, un granello di speranza. Le piante più forti nascono attaccate ad un granello di terra: spaccano il cemento armato,  pur di fiorire.. Mi sembra quasi di vederli stesi, come panni al sole, tutti i giorni che verranno: e ognuno ha il suo colore. Li ho fissati, ai lati, con tante mollette colorate: anche il  vento forte non  potrà portarli via. Ci vorrà  tempo perché si asciughino. Quando saranno asciutti li  ripiegherò,  con attenzione,  nella mia memoria. Alcuni saranno  consumati e lisi, altri sembreranno proprio nuovi. Parleranno ancora  nel buio dei cassetti. Per qualche tempo. Già, il tempo.

Patrizia Tocci

 

 

 

Patrizia Tocci

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Informazioni su pat1789

Patrizia Tocci nata nel 1959. Ha al suo attivo 7 pubblicazioni: poesie, romanzi e racconti. Scrive su riviste e giornali, si interessa di poesia e letteratura, collabora con Il Centro, quotidiano regionale abruzzese.

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